Corriere della Sera, 30 ottobre 2021
Aforismi di Einaudi sulla virtù del rigore
Luigi Einaudi fece della sobrietà una regola di vita. L’economia è la scienza dell’amministrazione delle risorse scarse anche se oggi ci sembrano falsamente abbondanti. Fosse vivo, non cederebbe alla tentazione di non condividere, sprecandola, la mezza mela del celebre aneddoto del Quirinale. L’austerità dovrebbe far rima con sostenibilità o meglio con responsabilità, parole chiave del dizionario einaudiano. Ma purtroppo l’austerità oggi è vista come un delitto. Senza attenuanti. Non meritevole nemmeno della prescrizione.
L’attenzione al dettaglio, alla piega minuta delle cose, era il frutto di un’educazione borghese, piemontese, severa. Persino l’apparire poteva essere uno spreco. La vanità, nella Divina Commedia, è sinonimo di inconsistenza, vacuità. E sicuramente Einaudi non vaneggiava. Ma nella lunghezza e nell’assiduità degli scritti giornalistici era tutt’altro che parco o stringato. A volte era persino bulimico. Al punto che nella fitta corrispondenza con un altro Luigi, Albertini, direttore del «Corriere della sera» (e vada per la minuscola di «sera» come afferma Corrado Sforza Fogliani, anche se i titoli sono titoli e la storia del quotidiano è maiuscola) è mal celata una preoccupazione amministrativa.
Einaudi scriveva troppo. Il marchigiano Albertini (che aveva studiato a Torino insieme a Einaudi con Cognetti de Martiis) i conti li faceva bene, persino «all’osso», per usare una terminologia selliana (nel senso di Quintino). Quando si trattò di strapparlo a «La Stampa» – era il 1899 e Albertini era ancora segretario di redazione – gli scrisse che 400 lire ad articolo, la sua richiesta, gli sembravano troppe, lui era entrato in via Solferino con 200 e che semmai si poteva arrivare a 300. Al massimo. Einaudi voleva essere pagato ad articolo, non a forfait.
I due continuarono a darsi del lei per tanti anni pur essendo stati, negli anni della gavetta, entrambi praticanti giornalisti alla «Gazzetta Piemontese». Diventato direttore, Albertini non raramente chiese al suo principale editorialista, futuro governatore della Banca d’Italia, vicepresidente del Consiglio e Presidente della Repubblica, di tagliare, smorzare, addolcire.
Il fratello Alberto, leggiamo in questo originale volume, curato e introdotto con passione liberale e acribia bibliografica da Sforza Fogliani, gli chiese di comporre degli ammonimenti, degli incoraggiamenti a sottoscrivere i prestiti nazionali in tempo di guerra. Aforismi che oggi chiameremmo comunemente tweet. Ma, a differenza dei moderni cinguettii, non erano, pur nella loro brevità e stringatezza, buttati lì, come reazioni umorali, conati di vario tipo come accade assai frequentemente, ahinoi, sui social network. Erano tasselli di un mosaico più vasto di saggezza economica, pillole di spirito patriottico non intrise di cupo nazionalismo ma di amore per il proprio Paese.
Rileggendole, scopriamo l’esistenza di un filo conduttore non solo ideale. C’è l’armonia comunicativa della semplicità. Se ci pensiamo, una formula, quella degli «ammonimenti», che attua una regola di base del giornalismo ben conosciuta sia da Einaudi sia da Albertini. Un articolo è efficace se si dice una cosa sola, se si sostiene, argomentandola al meglio, un’unica tesi, magari in contrapposizione ad altre. Un articolo del quale il titolo venga quasi automatico, spontaneo e dunque chiaro, netto.
Gli aforismi di Einaudi formano anche un manuale di economia alla portata di tutti. Spiegano bene l’effetto sull’inflazione della stampa di moneta che i prestiti avrebbero potuto evitare, il costo implicito di tenere liquidità sui conti correnti e sui depositi. Ovviamente abbonda la retorica patriottica dell’emergenza bellica (i proiettili d’argento del risparmio che coprono il nemico di proiettili di piombo), ma gli italiani sottoscrissero titoli, anche lunghi e con lock up, come si direbbe oggi, per circa un terzo del reddito nazionale. E non si può dire che vi furono costretti. Uno sforzo biblico che Einaudi si preoccupava – e qui arriviamo anche a temi di stretta attualità – ricadesse anche, e in proporzione maggiore, sui tanti che dalle forniture militari (oggi sanitarie?) traevano ingiusti guadagni, sui commercianti e soprattutto sugli industriali (ricorda Krupp capofila di una simile iniziativa tedesca).
Insiste sul fatto che maggiori saranno le sottoscrizioni, più breve sarà la guerra, forse non credendoci fino in fondo nemmeno lui. Ma è sincero e persino brutale quando scrive che lo Stato per avere i mezzi per difendersi, per aiutare le truppe in trincea, i soldi «per amore o per forza» li deve trovare. «Così eviterete il prestito forzoso».
Se un analogo discorso fosse stato fatto prima del prelievo notturno sui conti correnti del ’92 – e non c’era alcun conflitto se non sui mercati finanziari —, la fiducia degli italiani nello Stato sarebbe stata maggiormente tutelata. Ma all’epoca Einaudi era morto da tempo (nel 1961). Le sue idee però vivono anche attraverso questo libro. Il liberale Einaudi difendeva lo Stato di diritto che non è in antitesi alla libertà del mercato. Il Paese è una comunità solidale nella quale le imposte sono progressive e vanno pagate, in cui non esiste l’evasione di necessità e, soprattutto, non vi è soluzione di continuità tra etica pubblica e privata.