Corriere della Sera, 30 ottobre 2021
Storia del cappotto cammello
Centomila pezzi all’anno. Cioè 2250 la settimana. Vale a dire più di 400 al giorno. Con cento fasi di lavorazione per modello, una decina di passaggi a capo e sei alle stazioni di controllo (umano) di qualità. Quando poi si tratta di confezione (l’attimo sacro del commendatore Maramotti che ne intuì le potenzialità prima di tutti negli anni Cinquanta), macchinari fuori e spazio alle macchine da cucire. Quasi un mese dal taglio alla spedizione. E poi non ci si stupisca se Max Mara ha compiuto quest’anno i 70 anni, in salute e prosperità, praticamente mantenendo dall’inizio ad oggi i record via via conquistati: primo cappotto confezionato, cappotto più venduto in Europa, cappotto più venduto al mondo. Quale modello? Questo il punto. Ogni modello, oggi iconico. E sono parecchi.
Così ritrovarsi alle manifatture San Maurizio, in provincia di Reggio Emilia, diecimila metri quadrati costruiti nel 1988 (avanguardia allora, in time oggi), nel giorno in cui sono in linea i Teddy rosa e i Manuela cammello è un bingo di quelli fortunati. Vuoi perché il colpo d’occhio è incredibile fra i colori e le fasi di lavorazione. E vuoi perché ci si sente bambini in un negozio di caramelle, in dubbio su dove voltarsi, perché ovunque c’è un pezzo di storia dell’artigianato, della creatività, della tecnica industriale, della qualità. Con orgoglio ci mostrano una macchina, all’apparenza qualunque, che in realtà è stata brevettata qui a San Maurizio ed è l’unica al mondo a «girare» le cinture dei cappotti, una volta cucite. Dettagli? Assolutamente, ma che fanno la differenza. Come la sarta che con pazienza certosina ribatte all’interno a macchina le cuciture. O l’operaia (dei 310 dipendenti, il 95 per cento sono donne) che prova la caduta di ogni, ma ogni, pezzo prima di assemblarlo.
Con altrettanto stupore non si può non notare che al momento nella stirature non c’è alcun sbuffo di vapore, e che il ferro non tocca mai, ma mai, il tessuto. La spiegazione è ovvia quanto geniale: i materiali naturali (come il cammello o l’alpaca giustappunto) cambiano parecchio in colore e texture e lucentezza se «toccati» da agenti forti. Per lo stesso motivo ogni piccolo pezzo tagliato è riposto con cura a «dormire» su speciali carrelli (che sono ovunque), facendo bene attenzione a non creare la ben che minima piega. Così come ogni «taglio», nelle sue parti, viene etichettato (insieme ad altri barre-code) per tracciare sempre la provenienza dello stesso identico bagno di colore ed essere in grado di risalire all’originale nel caso ci fosse bisogno di sostituire qualcosa. I racconti sui passaggi possono andare avanti all’infinito. Fra i più surreali, in senso buono, quello della confezione delle fodere,sì le fodere. Considerate alla stregua dei capi, doppie cuciture, cadute perfette eccetera. E ci sta. Ma in più gli jacquard dei loghi devono sempre combaciare. Il dubbio, in certi passaggi, viene: ma è couture o prét-à-portèr? Se non fosse che è storia quella del commendatore Achille Maramotti che (per primo) nel 1951 s’inventò il concetto della confezione pronta (prima esistevano le sarte o i sarti e la stoffa e il su misura) chiedendo ai negozianti di tessuti di esporre alcuni dei suoi capi fatti.
Ian Griffiths, lo stilista che da anni è alla guida creativa, lo sa bene. Lui con il fondatore ha lavorato, cominciando ventenne dopo aver vinto un concorso a Londra: «La qualità in simbiosi con la realtà, questo aveva visto Maramotti. Oltre a capire prima di tutti che c’era una donna nuova da vestire, una donna che cominciava ad appropriarsi della sua vita e di certe professioni. Una femminista, sì, che non bruciava i reggiseni no, ma decisa a dialogare con il mondo per ottenere il meglio per sé. E solo qui, in Italia, e con un uomo come lui poteva nascere e crescere tutto questo e dove è stato possibile coniugare artigianalità e tecnologia, perché anche questo è». E poi c’è l’uomo del Teddy, che è lei: «È stato incredibile. Mi ha ispirato un cappotto da uomo, pezzo unico che aveva disegnato negli anni Cinquanta per un amico Achille Maramotti. Mi piaceva quel tessuto “peluche”. Poi sentivo nell’aria questo bisogno di protezione coccole. Quel capo faceva il caso mio. Lo abbiamo alleggerito ed è nato il Teddy Bear, nome perfetto. E se oggi ci copiano in tanti, personalmente lo trovo un complimento. Con la consapevolezza che possedere l’originale è sempre più gratificante». Già, e poi la matematica non è un’opinione: dal 2013 ad oggi di peluche da indossare ne sono stati venduti decine di migliaia. Alla faccia delle coccole.