7 ottobre 2021
Tags : Carlo Cracco
Biografia di Carlo Cracco
Carlo Cracco, nato a Creazzo (Vicenza) l’8 ottobre 1965 (56 anni). Cuoco. Personaggio televisivo. Ristoratore. «Cucinare è la cosa più rilassante che c’è al mondo. È il resto che è un problema» (ad Anna Prandoni) • «“Nulla mi è mai arrivato facile: ho sempre dovuto pedalare. Sono il quarto figlio di una famiglia semplice di Vicenza. Mio padre, ferroviere, arrotondava con tre lavori extra. E altrettanti ne aveva mia madre”. Lei era il piccolo: un po’ l’avranno coccolata. “Mica tanto: è gente pragmatica. Mia madre, per dire, non mi dava mai più di ottanta grammi di pasta, e io mi arrabbiavo perché ne avrei mangiata il doppio”. Che bambino era? “Pacioccone, un po’ imbranato. Non facevo sport – sono pigro per natura –, e quindi avevo pochi amici. Per fortuna c’era l’oratorio: diventai capo chierichetto, e in quinta elementare vinsi un viaggio per andare a vedere il Papa”. Ma è vero allora che voleva farsi prete? “Volevo iscrivermi al seminario, ma si pagava vitto e alloggio. Mio padre disse: ‘Sei scemo? Costa troppo’”. Non le interessavano le ragazze? “Ero abbastanza sfigato, un tontolone. Il primo bacio, l’ho dato a 14 anni, al mare: un avvenimento mondiale. Alla fine ho capito che per piacere alle ragazze dovevo essere originale, e allora ho usato come arma segreta la musica: grazie a mio fratello, che era più grande e suonava, conoscevo le novità, le tendenze. O, almeno, pensavo di conoscerle: una volta, sperando di rimorchiare, sono finito a un concerto degli Iron Maiden, tra metallari tutti maschi. Che cretino”» (Sara Faillaci). Concluse le scuole medie, scelse l’istituto alberghiero. «Per passione culinaria? “No, perché era lontano da Vicenza, in alta quota, ed era un bell’edificio viola con vista sulle montagne. Ero uno dei pochi a non avere parenti nella ristorazione, e all’inizio avevo 4 in cucina”. Bruciava le pietanze? “Facevo troppe domande. Il prof disse ai miei: ‘L’unica speranza è farlo lavorare’. Detto, fatto: cominciai a trascorrere i sabati e le domeniche da Remo, un ristorante di Vicenza da quattrocento coperti. Tre anni duri di studio da pendolare e lavoro”» (Vittorio Zincone). Il primo giorno in cucina «“è stato tragico. Anzi: tragicomico. […] Mi sono scottato tutte le dita. I polpastrelli. Allora si usava il bidone dell’olio per mettere le ceneri del camino, e il primo lavoro fu quello: prendo il bidone, era ancora bollente, mi restano attaccate le mani. Tutte e dieci le dita…”. Reazione in cucina? “Si sono messi a ridere. Mi hanno detto: ‘Come primo giorno non è male: forse ti conviene andare a casa. Magari cambiare mestiere’”. Per fortuna hai resistito. “Pensa che io non ero mai stato al ristorante prima di allora: solo una volta in trattoria con mia cugina quando abbiamo fatto la comunione. E non sapevo neanche la differenza tra una trattoria e un ristorante”» (Marco Lombardo). «Le sue prime mansioni? “Lavapiatti. Lo chef Mario mi diceva di osservare, osservare, osservare. Lì capii che cos’era una cucina. Poi un giorno Mario mi mise sulla schiena una mezzana di vitello da 70 chili e mi ordinò di disossarla. Fu la mia vera iniziazione. Alla fine mi regalò il suo coltello”. A quel punto era chiaro che avrebbe fatto il cuoco? “No. Presa la maturità, partii per fare il militare”» (Zincone). «Scesi a Roma, arruolandomi in Polizia, un corpo amministrativo e non militare, che mi consentiva di non mettermi le stellette e nel quale, pur essendo cuoco, avrei avuto la certezza di non essere sbattuto nuovamente in cucina. Da piccolo sognavo la divisa, e la divisa ebbi. Finii a fare ordine pubblico fuori dallo stadio Olimpico, con lo scudo e il manganello, tra una perquisizione e una carica in cui, non sentendomi cuor di leone, provavo a tenermi fuori dal centro della scena. Avevo scelto la Polizia perché volevo vedere com’era il mondo fuori. Capii abbastanza in fretta che quello non era il mio futuro» (a Malcom Pagani). «“Tornato a Vicenza, non sapevo che cosa fare. Mia sorella mi fece leggere un articolo del Sole 24 Ore su Gualtiero Marchesi. Ignoravo chi fosse, ma andai a sentire una sua lezione”. Marchesi la folgorò? “Sì. Nel 1984, mentre in Italia si cuocevano pennette alla vodka e porcherie simili, lui faceva cucina francese pura. A fine lezione gli chiesi se potevo lavorare da lui”. La prese subito? “Non mi cagò. Andai da Toni Sarcina, di Altopalato, e gli chiesi di lavorare tre mesi gratis nella sua scuola in cambio di una segnalazione a Marchesi”. Come andò a finire? “Marchesi mi fece chiamare. Mi piazzò come aiuto alle carni. Eravamo dodici cuochi. Una legione straniera. […] In brigata c’erano Oldani, Crippa, Lopriore. Eravamo la prima generazione a lavorare sui piatti espressi. Dopo tre anni Marchesi mi disse: ‘Se vuoi andare avanti, devi stare un po’ in Francia’. Andai prima da Alain Ducasse a Montecarlo e poi da Alain Senderens a Parigi. In tutto sono stato fuori tre anni”. Che cosa faceva per queste leggende francesi? “Da Senderens, che era considerato il più sperimentale, sono entrato come commis, apprendista, e sono uscito come terzo chef. Una bella soddisfazione”. Perché nel 1991 è tornato in Italia? “Volevo una brigata mia. Mi prese l’Enoteca Pinchiorri. Mentre ero lì arrivò la terza stella Michelin. […] Quando ho aperto un ristorante mio nel paesino sperduto di Piobesi d’Alba ed è arrivata la prima stella, è stata una soddisfazione pazzesca…”» (Zincone). A fine 2000 l’arrivo a Milano, in via Victor Hugo, nel ristorante denominato dapprima «Cracco Peck» (perché appartenente alla famiglia Stoppani, proprietaria della storica gastronomia Peck) – ben presto premiato con due stelle Michelin –, e poi, dal 2007, semplicemente «Cracco», locale che mantenne le due stelle fino al 2017, quando la nuova edizione della guida Michelin gliene assegnò solo una. A dargli la grande popolarità, nel frattempo, era stata la sua partecipazione ai programmi televisivi Sky MasterChef Italia (2011-2017) e Hell’s Kitchen Italia (2014-2018) in qualità di giudice gastronomico (affiancato da Bruno Barbieri, Joe Bastianich e dal 2014 Antonino Cannavacciuolo in MasterChef, monocratico in Hell’s Kitchen) dei piatti preparati dai concorrenti – dilettanti nel primo programma, professionisti nel secondo –, destando grande interesse soprattutto presso il pubblico femminile tanto per le sue sfuriate quanto per la sua avvenenza. «Vuol sapere del mio atteggiamento in tv? Io mi reputo una persona gentile, non sono ruvido: sono semplicemente diretto. C’è una certa differenza. Quando devo giudicare un piatto, non mi va e non mi è nemmeno possibile di girare intorno alla questione: devo puntare tutta l’attenzione su quello che c’è sotto i miei occhi. È più un ruolo, perché così riesco a tenere il pubblico concentrato su quello, altrimenti cambia canale. Io no, io non cambio, se mi fanno arrabbiare mi arrabbio di brutto, per esempio quando maledico un piatto la mia espressione è ferma, dura, ma è evidente che so essere gentile quando i nostri aspiranti cuochi lavorano. Il contesto è diverso». Nel 2018 l’addio alla televisione, «non per litigi con i miei colleghi, come è stato scritto: […] è perché avevo da fare altre cose»: quello stesso anno, infatti, trasferì il suo storico ristorante milanese – cui dal 2014 aveva affiancato il più spartano «Carlo e Camilla in Segheria», in zona Navigli – nell’esclusivo «salotto» di Galleria Vittorio Emanuele II. «Non è un capriccio, è una necessità. Non avevo più spazio e non volevo più mandar via le persone. E non si possono chiedere 200 euro senza dare in cambio comodità». «A inizio 2019 era al top. Con “in Galleria” a Milano aveva coronato il sogno di una vita. Poi la pandemia, lo stop forzato una, due volte. Roba da rimanerci sotto. Invece, quando l’Italia sembra rialzare un primo sguardo sull’orizzonte, lo chef rilancia: […] una nuova apertura sui Navigli a Milano e […] un ristorante a Portofino, dove un tempo c’era il Pitosforo» (Carlo Annovazzi). Quello di Portofino è «il primo ristorante dello chef di origine vicentina a non avere in carta nemmeno un piatto di carne. Solo pesce e moltissimi vegetali. Una rivoluzione verde che lambisce anche lo stesso ristorante milanese in Galleria. “Dopo il primo lockdown abbiamo cominciato a ridurre drasticamente la carne proposta nei nostri menu – racconta Cracco –. Ci dicono che troppa fa male, i clienti la chiedono sempre meno, anche io stesso ormai la mangio raramente. A Milano abbiamo ancora qualcosa in carta, lì non la si può eliminare del tutto, però ormai compare in pochissimi piatti. A Portofino, invece, è facilissimo sostituirla. Qui davanti […] tutte le mattine alle 6 e mezza si fermano due pescatori che vendono pesce fresco. Fiori ed erbe, come gli spinaci selvatici, ce li porta una signora di un’azienda agricola di Chiavari che ci rifornisce anche di uova. E poi naturalmente abbiamo tutti i prodotti, dalle verdure alla frutta, della nostra azienda agricola di Santarcangelo di Romagna. Alla fine qui con pesci e verdure ci si può sbizzarrire davvero tanto in cucina”. Ecco allora piatti come i gamberi di Santa Margherita con pinoli portofinesi e pesche alla brace; scampi marinati alla ciliegia, insalata di campo e mandorle; oppure il risotto alla triglia con il prebuggiun, il tipico mix di erbe liguri; o la costoletta di pesce con zucchine e agrumi» (Isabella Fantigrossi) • Tra i vari premi ricevuti anche l’Ambrogino d’oro, nel 2006. «“Una delle soddisfazioni più grandi della mia vita”. Ha detto: “Voglio far tornare Milano ai vertici della cucina mondiale, come ai tempi di Marchesi”. “Più o meno ci siamo riusciti”» (Zincone) • Volto di alcune campagne pubblicitarie, tra cui quelle della Scavolini e delle patatine San Carlo. «Molti non ti perdonano la pubblicità. Quella delle patatine, poi… “Già. Eppure Marchesi ha fatto ben di peggio: McDonald’s e Surgela. E allora: di che cosa stiamo parlando? E credi che Bocuse non abbia mai fatto pubblicità? Ma dai… La gente pensa che volessi diventare ricco, che fosse per vanità. Io invece l’ho fatto perché sono da solo e devo gestire tutto per crescere e migliorare. Per non dover chinare la testa davanti a nessuno. E avevo un progetto: quello della Galleria. L’ho fatto per questo”» (Lombardo) • «Pensi che la tv ti abbia portato qualcosa o te lo abbia tolto? “Entrambi. Mi ha tolto del tempo prezioso forse, ma mi ha anche dato tanto. […] Però non è mai stato un fine ultimo: io non ho mai voluto diventare uno showman o un personaggio tv, era semplicemente un mezzo che mi ha permesso di farmi conoscere e di poter fare altro, di andare avanti con il mio lavoro e cominciare progetti più grandi» (Prandoni) • Quattro figli: Sveva e Irene dalla prima moglie, Pietro e Cesare dalla seconda e attuale consorte. «Io spero che qualcuno imiti la strada di quello scemo del padre, almeno uno su quattro… Ma devono decidere loro». «Cracco in famiglia […] è un mix di tenerezza e pragmatismo veneto, dice che i figli sono “la cosa più naturale”: fosse per lui, ne farebbe dieci. […] “È tradizione, in casa nostra, svezzare tutti al sesto mese con il piccione”, spiega Cracco. “È carne rossa però magra, la migliore per i bambini, perché non è pesante”. […] Per il resto, ama far assaggiare ai figli di tutto, […] è golosissimo di salame e lo dà anche ai bambini (“Se è di buona qualità, fa benissimo”), ma la cosa cui tiene di più è il naso. “Faccio annusare tutto, dal vino alla cipolla. È il modo migliore per conoscere e apprezzare il cibo”» (Faillaci) • Il secondo matrimonio, con Rosa Fanti (classe 1982), oggi sua stretta collaboratrice a livello gestionale, fu celebrato nel 2018, dopo la nascita dei loro due figli. Il colpo di fulmine (per lui) nel 2005, «a un evento: lui cucina, lei cura le pubbliche relazioni del locale che lo ospita. […] “Quando è venuto a casa mia, come prima cosa ha aperto il frigorifero. Dentro c’era solo una confezione di piadine precotte e una mozzarella: volevo morire. Carlo l’ha richiuso e mi ha detto: ‘Da domani, la spesa, la faccio io’. Il giorno dopo si è presentato con dieci sporte piene di cibo: ‘Non toccherai mai più un fornello’. Poi si è messo a cucinare, piccione con patate e castagne. L’ho assaggiato e lì ho capito: sono fritta”. […] Che effetto fa essere la compagna di un sex symbol? “Se va a riguardare le vecchie foto, si renderà conto che Carlo non è mai stato un bello, e non è abituato a essere considerato tale. Negli ultimi anni certo è cambiato: i capelli, la barba, i vestiti. Ma fare questo effetto sulle donne lo mette a disagio. E io me la rido”. C’è il suo zampino, immagino, dietro al nuovo look. “Ho buttato ciò che aveva nell’armadio: capi magari divertenti, ma troppo eccentrici, e abbinamenti sconclusionati. Abbiamo ricomprato insieme ogni cosa”» (da un’intervista di Sara Faillaci a Rosa Fanti) • «Quando riesci a uscire dalla cucina cosa fai? “Tutto quello che mi piace. Andare a scoprire qualcosa di nuovo. Fare un giro in bicicletta, in moto, in auto. Non esiste solo la cucina: il nostro lavoro è fatto di tanti input e di tante esperienze. La cosa bella è che nel nostro lavoro si impara anche andando in giro: muovendoti ti vengono in mente degli spunti possibili solo in quelle circostanze”» (Prandoni) • «Ci dica un suo pregio e un suo difetto. “Sono umile. Come difetto, spesso e volentieri tendo più a isolarmi che ad aprirmi”» (Alessandra Menzani) • «“La ristorazione non è per tutti: ci vogliono passione, regole. E rispetto. Rispetto per chi lavora con te e per chi viene da te. […] Passione, professionalità, energia. Ma non basta. […] Abbiamo bisogno di un interlocutore politico. Uno. Solo così possiamo dare vita a una ‘casa’ della ristorazione. Costruiamo insieme il futuro della ristorazione italiana. Noi chef siamo pronti a fare la nostra parte, ma non dobbiamo essere soli”. Tanti suoi colleghi sono andati in piazza a protestare nel periodo delle chiusure. Perché lei no? “Io non sono un tipo da piazza. Protestare è facile, anche piangersi addosso. Io credo che prima si debba proporre, pensare, creare una coscienza. Adesso lo stiamo facendo”. […] Non è andato in piazza, però si è schierato pro legge Zan. “Ma come si fa a non essere d’accordo nel 2021, parliamo di diritti sacrosanti. Dovrebbe essere la base della società civile, la normalità”» (Annovazzi) • «Marchesi […] diceva che tu eri un suo allievo ma non un discepolo. Cos’è successo davvero tra di voi? “Ma niente. Solo che io non ho mai voluto essere Marchesi. Lui è stato il mio primo riferimento: ma il mio obbiettivo non era fare Marchesi, perché di Marchesi ce n’era uno. Nel mio piccolo, son riuscito a essere Cracco”» (Lombardo) • Tra le sue eresie culinarie, quella della panna nel tiramisù. «Noi abbiamo un problema pratico. Alla pasticceria in Galleria Vittorio Emanuele […] si serve come dolce in porzione, e se non ci metti la panna si affloscia. Tutto qui. […] Non basta: ho tagliato la testa al toro e l’ho fatto anche al vapore, tipo soufflé» (a Elena Filini) • «Lei è famoso anche per lo studio sull’uovo. “Detto così, sembra che io faccia il chimico. Cercavo una ricetta nuova, che si muovesse da quella secolare. È venuto fuori l’uovo marinato. Ora c’è il rischio che tutta la mia carriera resti attaccata a quell’uovo”» (Zincone) • «Qualcuno però sostiene che mangiare a 200 e più euro… “Perché: spenderne 500 per andare alla Scala? Chi capisce, chi c’è stato davvero, in questi ristoranti, sa il perché. Io non ho mai visto cuochi miliardari: ho visto cuochi che lavorano come matti per crescere. Tipo Vittorio, per fare un nome. E allora? Perché solo da noi è uno scandalo? […] In Francia, per dire, spendere per mangiar bene è la normalità. Lì la cucina è cultura, fin da quando si preparavano i banchetti per i nobili. Arrivata la Rivoluzione, tutta quella conoscenza è stata messa a disposizione per la nuova borghesia. Il ristorante nasce così: preservare la cultura di cibo e vini e metterla sul mercato. Ma in Italia la gente pensa ancora che sia buttare via i soldi”. Come mai? “Perché noi siamo un Paese di osterie e trattorie locali, dove si mangia tanto per spendere poco. Noi nasciamo provinciali. Prima di sradicare questo modo di pensare ci vorranno generazioni. Almeno cinque”» (Lombardo) • «Il più glamour tra gli chef» (Zincone). «Molti non lo trovano particolarmente simpatico» (Aldo Grasso). «Un presuntuoso» (Joe Bastianich). «Il cuoco vicentino che dalla morbidezza, dalla dolcezza, dall’allegria veneta non ha preso nulla» (Camillo Langone) • «All’inizio, quando ero solo un aiutante, sono stato maltrattato e umiliato, ma forse passare attraverso un’iniziazione rude è l’unica maniera per crescere davvero. Ti sveglia, ti scuote, ti fa vincere la timidezza» • «Cosa fa di un buon cuoco uno chef? “Non c’è un teorema. Direi la passione, l’impegno. Per quel che mi riguarda, andare avanti tutti i giorni con lo stesso entusiasmo e non conoscere la parola routine”» (Filini). «Il segreto è non sentirsi mai arrivati» • «Chi sa veramente cucinare è chi lo fa sapendo a chi è diretto quel piatto e ci mette gioia e passione. Quando vedi uno che fa da mangiare senza nessuna motivazione, senza alcun trasporto emotivo, c’è qualcosa che non funziona». «Cucini per te? “No, mai. Se son solo a casa, me ne vado a mangiare fuori. Io cucino solo per gli altri”» (Lombardo) • «Fare il cuoco è la forma più libera ed espressiva che ci sia. È come dipingere: uno può scegliere se mettere il colore, farlo col pennarello, farlo su un muro. È una forma d’arte minore» • «Sei passato da cuoco a imprenditore: è cambiato tutto? “Una volta dicevano che se eri un bravo cuoco potevi aspirare a diventare ‘chef’: ‘chef’ inteso come capo, non nel senso in cui lo usiamo oggi. Se eri un bravo capo, forse, potevi aspirare a diventare ‘chef patron’: e io quello faccio, né più né meno”» (Prandoni) • «Ho lavorato tanto e spero di non morire con la giacca bianca addosso. Però ora posso dire che il mio l’ho fatto, che ho dato. Adesso, finalmente, me la godo».