22 ottobre 2021
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Biografia di Ang Lee (Lǐ Ān)
Ang Lee (Lǐ Ān), nato a Chaozhou (Taiwan) il 23 ottobre 1954 (67 anni). Regista. Sceneggiatore. Produttore. Tra i numerosi premi conseguiti, un Oscar al miglior film straniero (La tigre e il dragone, 2001) e due alla miglior regia (I segreti di Brokeback Mountain, 2006; Vita di Pi, 2013), due Leoni d’oro al miglior film (I segreti di Brokeback Mountain, 2005; Lussuria. Seduzione e tradimento, 2007) e due Orsi d’oro (Il banchetto di nozze, 1993; Ragione e sentimento, 1996). «Sono un represso. E faccio film sulla repressione» (a David Gritten) • «Il mio defunto padre, Sheng Lee, era una tradizionale figura autoritaria cinese. Lui e mia madre si trasferirono a Taiwan dopo la Guerra civile cinese. Mio padre rappresentava la società patriarcale tradizionale cinese. Vivevo sempre nella sua ombra. […] Ero timido e docile e mai ribelle. Ma mi ha insegnato come sopravvivere e come essere utile. Era un uomo formale ma molto pragmatico, preside di un liceo. […] Durante la mia crescita […] mi faceva studiare tutto il tempo: lo studio era tutto ciò che era importante per lui. Non era un tipo molto divertente, ed era in qualche modo disilluso nei miei confronti. Artisticamente, ero molto represso. Non avevo davvero mai modo di esprimermi, e non ero esposto a granché di artistico, al di là del guardare film una volta alla settimana. Mio padre voleva che avessi una professione rispettabile. L’insegnamento era per lui rispettabile. Diceva: “Prendi una laurea e insegna all’università”. […] Ma io volevo solo fare film, quindi non ho mai soddisfatto le speranze che nutriva per me. […] Mia madre, Se-Tsung, era molto sottomessa a mio padre e obbediente. […] È stata un’ottima madre per me e i miei fratelli. […] Da bambino non riuscivo davvero a concentrarmi sui libri o sui compiti. A scuola ero tra il sufficiente e l’insufficiente perché fantasticavo tutto il tempo, divertendomi molto nella mia testa perché non mi divertivo molto nella realtà. Furono necessari 35 anni per liberare tutta quell’energia. Ero represso, e quella repressione fu poi rilasciata quando sono diventato un regista» (a Elaine Lipworth). «“L’idea nella mia famiglia […] era che studiassi qualcosa di pratico, entrassi in un buon college, poi venissi in America a studiare, e prendessi una laurea. Ma toppai l’esame universitario, perché ero troppo nervoso. Entrai alla Taiwan University of Art, specializzandomi in teatro e cinema. A quei tempi, nei primi anni ’70, non c’era molto che si potesse fare con il cinema a Taiwan. Ma, una volta salito sul palco, come attore, me ne innamorai. Ero molto felice a scuola, ma non studiavamo molto teatro occidentale. Iniziai a guardare molti film: Bergman, Renoir, molti film di questi maestri. All’età di 23 anni entrai all’Università dell’Illinois, specializzandomi in teatro. Lì trascorsi due anni. Questo cambiò la mia vita: iniziai a divorare la cultura occidentale, non tanto la letteratura o la scienza o gli studi sociali, ma il teatro”. A che punto capisti che eri più interessato alla regia che alla recitazione? “Accadde quando iniziai a studiare negli Stati Uniti. Non parlavo affatto inglese: parlavo inglese semplificato. E per questa ragione non potevo davvero recitare. Così passai dalla recitazione alla regia. […] Alla fine, dopo essermi tanto esposto al cinema, vedendo da cinque a sette film ogni fine settimana, volevo fare film. Feci il mio saggio di laurea alla New York University: tre anni nel programma cinematografico. È un programma molto pragmatico: tu esci e fai film”» (Glenn Kenny). «Fu lì che realizzò i suoi primi cortometraggi, tra cui il pluripremiato Fine Line (1984). Collaborò anche con il promettente collega Spike Lee, servendo come primo assistente alla regia nel suo film di tesi. “Era un anno avanti a me e ci siamo aiutati a vicenda”, ricorda Lee. […] Per Lee il successo non arrivò immediatamente dopo la laurea: ci fu qualche anno di magra per lui, sua moglie Jane e i loro due figli piccoli. Ma la situazione cambiò nel 1990, quando presentò due sceneggiature a un concorso taiwanese di sceneggiatura, finendo al primo e al secondo posto. Le opere che ne risultarono, Pushing Hands del 1991 e Il banchetto di nozze del 1993, toccarono il pubblico di tutto il mondo con i loro ritratti del conflitto intergenerazionale tra le famiglie immigrate in Occidente» (Neil Smith). «Quando inizia a scrivere sceneggiature, la sua identità divisa tra sensibilità orientale e pragmatismo occidentale gli suggerisce temi e situazioni (sviluppate con James Schamus, professore di cinema alla Columbia University, suo abituale co-sceneggiatore): nasce così Pushing Hands (1992), racconto delle difficoltà di ambientamento incontrate da un anziano maestro di tai-chi di Taipei che raggiunge la famiglia del figlio a New York. Se Il banchetto di nozze (1993, Orso d’oro a Berlino) è un’elegante commedia su una coppia omosessuale newyorchese in cui uno dei due gay, quello di Taiwan, finge il matrimonio per non insospettire i parenti appena giunti da Taipei, Mangiare bere uomo donna (1994) segna il ritorno di Lee in patria per una vicenda familiare – la vita di un cuoco in pensione con le tre figlie, scandita dal rito del pranzo domenicale – ancora incentrata sulle incomprensioni relazionali. Il successo critico di questa trilogia di “cibo e sentimenti” porta Lee al timone di una grossa produzione in costume come Ragione e sentimento dall’omonimo romanzo di Jane Austen (1995, Oscar per la sceneggiatura). Con Tempesta di ghiaccio (1997), rievocazione dell’America del Watergate attraverso un microcosmo familiare in crisi, inizia a perlustrare zone d’ombra della storia statunitense, con uno sguardo privo di retorica (la Guerra di secessione combattuta da giovanissimi di ambo le parti in Cavalcando col diavolo, 1999). La tigre e il dragone (2000, quattro premi Oscar), vigorosa epopea di eroi, banditi, maghi e principesse uniti e divisi da amori appassionati e odi viscerali nella Cina feudale, sotto l’apparenza dell’omaggio a un genere di lunga tradizione nel cinema di Hong Kong (il wuxiapian, o “film di spadaccini”), dimostra l’eclettismo di Lee e celebra l’avvenuta acquisizione di un’estetica orientale di grande eleganza visiva da parte del cinema hollywoodiano» (Gianni Canova). «Protagonista è una spada dai poteri magici, il Destino Verde, in una vicenda costruita sul senso dell’onore e su amori celati. E poi c’è lo splendore di corpi che sconfiggono le regole della gravità in combattimenti d’arte marziale realizzati con la tecnica del kung fu aereo, con coreografie disegnate dal celebre Woo-ping (lo stesso di Matrix). Dice Lee ridendo: “Io lo definisco un Ragione e sentimento con kung fu: Jane Austen che sposa Bruce Lee”» (Silvia Bizio). Seguì nel 2003 Hulk, si rivelò il suo maggiore insuccesso commerciale. «Ho preso il fumetto troppo sul serio: Hulk è un personaggio stupido e io ci ho costruito un intero dramma psicologico intorno. È che dopo il successo de La tigre e il dragone pensavo che avrei potuto fare quello che volevo. […] Ciò che non avevo capito è che in America il fumetto è una istituzione intoccabile. Violarne i codici ha provocato una reazione rabbiosa dei fan. Sono stato il regista sbagliato del film sbagliato» (ad Arianna Finos). «Per me il tema era legato a quello di La tigre e il dragone. In quel film, il “drago nascosto” è ciò che è intrinseco ma anche represso nella cultura, quindi in Oriente era il sesso; nell’America di Hulk il “drago nascosto” è rabbia e violenza». «Mi avevi detto intorno al 2004, dopo Hulk, che stavi pensando di abbandonare il cinema, ritirarti. “Sì, ero stanco. Ero battuto e sfinito, in pratica. E mio padre non mi ha mai incoraggiato. Anche quando ho ricevuto l’Oscar, non mi ha mai incoraggiato. […] A ogni modo, dissi che volevo andare in pensione, e lui disse: ‘Insegnerai?’. Dissi: ‘No’. Disse: ‘Cosa farai, darai l’esempio ai tuoi figli? Mettiti un casco e vai avanti, vai a fare un film’. È stato allora che ho deciso di realizzare Brokeback Mountain. Due settimane dopo averlo detto, è morto”» (Liev Schreiber). «La giusta distanza, culturale e cinematografica, con cui affronta il cinema statunitense riluce di autonomia artistica in I segreti di Brokeback Mountain (2005). Nel misurarsi con il mito fondativo del western (e il racconto da cui è tratto il film, Gente del Wyoming di Edna Ann Proulx), Lee ne trasla codici d’onore, paesaggi ed epopea per firmare una melodrammatica storia d’amore impossibile tra due cowboy, costretti, nella profonda America degli anni ’60, a celare l’affetto che li unisce. Il film vince il Leone d’oro a Venezia e 3 Oscar (regia, colonna sonora e sceneggiatura non originale). Il successivo Lussuria. Seduzione e tradimento (2007), ancora Leone d’oro a Venezia, racconta un’altra storia d’amore, questa volta torbida e raggelata, nella Cina sotto occupazione giapponese tra gli anni ’30 e ’40, dove una giovane aspirante rivoluzionaria è incaricata di sedurre e uccidere un funzionario collaborazionista, ma rimane coinvolta nel gioco pericoloso di passione e tradimento» (Canova). Una volta tornato negli Stati Uniti, si dedicò a Motel Woodstock (2009). «All’epoca in cui il più celebre concerto della storia della musica risuonava in tutto il mondo Ang Lee aveva appena 14 anni, viveva a Taiwan e si stava preparando per l’esame d’ingresso al liceo. “Vidi Woodstock al notiziario in bianco e nero”, ricorda il regista. “Parlavano di questo enorme evento americano e mostravano le immagini di quello che per me, che all’epoca ero di vedute conservatrici, sembrava un raduno hippie con capelloni che si esibivano sul palco e una folla oceanica al loro cospetto. […] A distanza di anni mi sono reso conto dell’importanza di quel periodo. Nella memoria collettiva Woodstock ha rappresentato l’età dell’innocenza, che in seguito sarebbe andata perduta per sempre. […] Dopo Tempesta di ghiaccio ho diretto sei tragedie di fila. Al termine dell’ultimo film mi trovavo in questa sorta di abisso, soffrivo di una profondissima depressione e sentivo la necessità di uscirne. Motel Woodstock si è presentato al momento giusto, proprio quando avevo bisogno di un po’ di leggerezza. È stato liberatorio poter tornare alla commedia» (a Tirza Bonifazi Tognazzi). Le sue ultime pellicole si distinguono per un uso sempre più massiccio di effetti visivi digitali, convintamente rivendicato. «Vita di Pi (2012) […] lo ha visto schierare gli effetti visivi più sofisticati disponibili per trasporre il racconto di Yann Martel su un giovane indiano che condivide una scialuppa di salvataggio con una tigre in una vita tridimensionale straordinaria. […] Il fascino di Lee per la tecnologia all’avanguardia è stato nuovamente mostrato in Billy Lynn – Un giorno da eroe (2016), sul rito di passaggio di un eroe di guerra, che ha girato usando una frequenza di fotogrammi eccezionalmente elevata. Allo stesso modo, in Gemini Man del 2019, ha usato la cattura del movimento anti-età per mettere Will Smith contro il suo io più giovane clonato. “In un certo senso vuoi provare la cosa più nuova per tornare al piacere più antico”, dice Lee del modo in cui usa la tecnologia. “La sfida è sempre provare qualcosa di nuovo. Vorrei che la mia carriera fosse come una scuola di cinema senza fine e voglio provare di tutto. Sono curioso, quindi prendo la strada che penso il materiale richieda”» (Smith). «Non voglio cambiare solo il modo di vedere i film. Voglio cambiare l’arte del cinema» • «Io, comunque, in queste tecniche cerco sempre l’esperienza umana e le vibrazioni dell’anima. Se la tecnologia va di pari passo con le vite che una sceneggiatura racconta, il cinema può davvero offrire un ottovolante di sensazioni, immagini, situazioni. La realtà virtuale del cinema oggi deve raccontare storie, non affidarsi unicamente al potere degli effetti speciali» (a Giovanna Grassi) • Sposato con una microbiologa, due figli maschi. «“Penso di essere stato un genitore decente, ma so anche di non essere stato un padre molto presente. Mia moglie Jane si è sempre occupata della loro educazione, come di tutti i problemi pratici della famiglia. Io sono un sognatore. Ma proprio in quanto tale credo di essere stato una fonte d’ispirazione per i miei figli, penso di averli spronati a esprimersi, e anche di averli resi fieri della mia arte. Per loro sono una sorta di modello”. Il maggiore disegna fumetti: “È un grande visionario”. Il più piccolo fa l’attore: “Gli ho sconsigliato di prendere la mia stessa strada, proprio come mio padre fece con me. Ma ogni figlio deve provare al padre che ha sbagliato. È proprio così. Io non ho mai mancato di rispetto a mio padre, ma ho passato la vita a dimostrargli che si sbagliava”» (Finos). «Mia moglie è la mamma tigre di casa, quella saggia della famiglia. Io sono come il terzo figlio di casa. Lei fa tutte le regole. Noi obbediamo. Prima di lavorare come regista, mia moglie lavorava. Sono stato fortunato: mia moglie ha provveduto essa stessa alla famiglia e non mi ha mai chiesto di trovare un lavoro. Andavo a prendere i bambini a scuola, cucinavo e scrivevo» • Si definisce «un eterno Peter Pan». «Diciamo che sto invecchiando. Ma forse posso ancora, di tanto in tanto, fare finta di avere il cuore di un bambino» • «Io sono per l’equilibro di ying e yang. Non so se ci sia qualcosa o qualcuno al quale si possa far risalire il Tutto. Penso però che questo dualismo sia interessante. Già il fatto di dibatterne eleva lo spirito umano. Non sono quel tipo di persona che dice in modo semplicistico: “Credo nella natura”. Non siamo animali, siamo esseri intelligenti. E, proprio come tali, cerchiamo di dare un senso all’esistenza. Come? Io penso che lo facciamo creando significati. È per questo che inventiamo storie. Senza questi racconti, che servono per narrare la nostra esistenza e capirla, saremmo forse depressi, pazzi, brutali, anche scemi. Credo nel dualismo, nella natura che è caos e nell’uomo che la ordina. Anche con la propria umanità, gentilezza, compassione, empatia» (a Elena Martelli) • «Taiwan è come la mia isola galleggiante. È un’isola non riconosciuta come nazione, non ha un’identità definita. Lì c’è una situazione politica molto particolare: tutto è incerto. Galleggiante. È un’isola, è oceanica e io sono stato alla deriva, fluttuando come Pi, per tutta la vita» • «Di Taiwan ha ereditato l’amore per il cibo, protagonista in molti suoi film, da Banchetto di nozze a Mangiare bere uomo donna. Anche in Vita di Pi il protagonista si racconta preparando e servendo pietanze all’ospite. “Cucino solo cibo cinese, ma sperimento. Mi serve per rilassarmi, scacciare i pensieri. In casa mia si è sempre parlato di cibo. Nella cultura cinese è una cosa importante, un modo di relazionarsi alla vita, una filosofia, proprio come in Italia”» (Finos) • «Io sono un buon cuoco, quindi penso di essere un buon regista. […] Il regista deve agire da artigiano, come si fa in cucina: pensare agli ingredienti immaginando i risultati, poi osservare il pubblico mentre assapora il film e attendere di sapere se gli è piaciuto» (a Roberto Nepoti) • «Ang Lee, che ha raccontato l’America omofoba e quella hippie di Woodstock, è convinto che gli Stati Uniti siano “un posto violento dove tutti possono possedere e impugnare un’arma, un posto in cui non mi sento mai davvero al sicuro”. Eppure non ha perduto l’amore che […] lo spinse a lasciare Taiwan: “Gli Stati Uniti sono un posto diverso da qualsiasi altro. Non è un Paese unito da una cultura, ma da un’idea. E la gente vive insieme per questa idea. L’idea di libertà. L’America ti lascia essere te stesso più di quanto sia permesso in qualunque altro posto al mondo. Ed è questo che la rende speciale”» (Finos) • «Pochi registi sanno unire finezza psicologica e padronanza assoluta della macchina da presa come lui. […] E l’uomo è interessante almeno quanto i suoi film» (Arianna Finos). «Fra tutti i cineasti attualmente in attività a Hollywood, Ang Lee è quello che più consapevolmente di altri ha perseguito la propria occidentalizzazione con tutti i mezzi possibili. Cineasta dalla vocazione sostanzialmente accademica tesa a un’illustrazione tutta di superficie ma in grado, a tratti, di offrire dei lancinanti squarci di vero. […] Cineasta ibrido, il cui interesse risiede da sempre nelle forme e nella misura in cui la tensione Occidente-Oriente si articola come discorso sull’esilio da se stessi» (Giona A. Nazzaro). «È un bravo professionista, non un vero talento e tanto meno un genio» (Lietta Tornabuoni) • Nel 2006 andò a Fårö, in Svezia, per incontrare Ingmar Bergman (1918-2007), il cui film La fontana della vergine, visto per la prima volta a diciotto anni, costituisce uno spartiacque nella sua formazione: all’epoca, «La fontana della vergine […] rubò la mia innocenza. E poi, anni dopo, lui mi diede un abbraccio molto materno. È un potere strano, miracoloso, magico. Non penso affatto che il mio modo di fare film abbia qualche relazione col suo: lui per me è come Dio. Prenderò ispirazione da lui, ma non oserò imitarlo. Però un abbraccio è un abbraccio, da regista a regista» • «C’è più di un modo per fare film. Per me deve essere guidato dall’emozione. Questa […] è la mia rete di sicurezza» • «Da Jane Austen al kung fu: come sceglie i suoi film? “Vado molto ad istinto e posso solo sperare che il pubblico sappia reagire con le stesse emozioni. Quando scelgo un film mi domando se mi spaventerà farlo, e questo mi eccita. Non c’è emozione più forte della paura, perché ti spinge ad andare avanti. Se rimani nello stesso posto, la gente si stanca di te, e tu stesso ti stanchi”» (Bizio) • «Sono uno straniero da tutta la vita. […] Questo mi ha reso molto più facile guardare il mondo da prospettive differenti» • «Mi reputo una persona fortunata perché ho potuto guardare l’Occidente dalla Cina e poi la Cina dall’America. Questo mi ha aiutato a capire le due diverse culture. La distanza aiuta: è come andare nello spazio e poter vedere la Terra da lassù» (a Grazia Casagrande).