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 2021  ottobre 28 Giovedì calendario

Biografia di Eugenio Barba

Eugenio Barba, nato a Brindisi il 29 ottobre 1936 (85 anni). Regista e teorico teatrale. Fondatore dell’Odin Teatret (Oslo, Norvegia, 1964) e dell’International School of Theatre Anthropology (Holstebro, Danimarca, 1979), dei quali è tuttora direttore. «Non ho mai voluto una patria costituita da una nazione o da una città. Non ci credo. Eppure ho bisogno di una patria. […] Il teatro è la mia patria» (ad Antonio Gnoli) • «Sono […] cresciuto a Gallipoli. Con una madre che mi ha lasciato molta libertà. Mio padre morì a causa di una nefrite cronica. Furono i postumi di una guerra che aveva perso. In casa, pochi soldi. Desideravo fare il pilota di aerei. Liceo militare alla Nunziatella di Napoli: dal 1951 al 1954». «“Mio padre era militare, avevo sempre pensato di fare anch’io quella carriera. Ma, alla fine dei tre anni di collegio militare, mio fratello mi aprì gli occhi: ‘Eugenio, l’Italia ha perso la guerra, le colonie non ci sono più, l’esercito italiano nella storia militare europea è mediocre: vuoi finire a Brescia o a Siracusa a insegnare alle reclute a marciare?’. Mi convinse”. A portarlo, appena diciottenne, nel Nord Europa fu l’amore: una ragazza, incontrata nel ’54 durante una vacanza in Svezia in autostop. “Volevo vivere con lei, ma a Roma abitavamo con mia madre rimasta vedova a casa di suo padre ammiraglio, severissimo. Fu proprio mia madre a incoraggiarmi ad andar via”» (Anna Bandettini). In Svezia, però, «non avevo permesso di lavoro né di soggiorno. Per un po’ feci lo sguattero. Mi spacciavo per brasiliano. Erano più tollerati degli italiani. Decisi che sarei andato a lavorare nelle miniere di Kiruna in Lapponia. […] Fui però scoperto dalla polizia, e mi sbatterono fuori. Mi lasciarono a Narvik. […] Da Narvik scesi verso Oslo. Tornai al mondo urbano. Un giorno mi accorsi che non trovavo più il mio alberghetto. Ero smarrito. Chiesi aiuto a un marinaio. Mi ci condusse. Volle sapere cosa facevo. Dissi che non avevo lavoro né soldi. Mi accompagnò, il giorno dopo, presso un’officina meccanica dove cercavano un assistente saldatore. Sarei stato apprendista. […] Venni assunto. Per sei anni ho lavorato come saldatore. Fu un’esperienza straordinaria, sia umana che professionale. Eigil, il proprietario, in un momento in cui nessuno avrebbe dato fiducia a un giovane senza arte né parte, mi accolse. Mi insegnò un mestiere. Mi permise anche di studiare all’università, e alla sera di frequentare la biblioteca. Nell’officina eravamo una decina. E lui sempre insieme a noi. Politicamente era un conservatore, ma aveva anche fatto la Resistenza. Eigil sapeva cosa fosse il rispetto per gli altri. A un certo punto gli dissi che volevo conoscere altre cose e che mi si era presentata l’occasione di imbarcarmi su una nave verso l’Oriente. Mi rispose: “Se vuoi partire, fallo: qui c’è sempre la porta aperta”. Volevo visitare e conoscere l’India. Lavorai come marinaio per un anno e mezzo su un cargo e poi per sei mesi su una petroliera. Quando scendevo, nei luoghi più remoti ed esotici, visitavo templi, musei; ero affascinato dai loro teatri. E, quando tornai a Oslo, Eigil mi riprese con sé. Riuscii anche a laurearmi in Storia delle religioni con una tesi sul sufismo» (ad Antonio Gnoli). «“Avevo finito l’università, mi chiedevo cosa avrei fatto. Decisi di studiare teatro. Scoprii, attraverso mia madre, dell’esistenza di un bando di borse di studio per la Polonia. In quel momento stavo andando in Israele. Animato da ideali socialisti volevo fare l’esperienza dei kibbutz. Prima di partire inviai il mio curriculum per partecipare al bando. […] Trascorsi sei mesi in Israele. […] Poi a sorpresa arrivò una lettera in cui mi annunciavano che avevo vinto la borsa”. Che fece? “Presi un treno per Varsavia. Era il 1961. Qualche anno prima Gomułka era andato al potere. In molti sperarono che le cose sarebbero migliorate. Non parlavo una parola della lingua. Il primo anno mi fecero assistere da esterno alla loro scuola teatrale. Credevo nel socialismo e scoprii la corruzione, la censura, la stupidità del regime. Decisi di lasciare la Polonia e di tornare in Norvegia. Era il Natale del 1961. Stavo in un bar a Cracovia, abbastanza disperato per tutto quello che di fallimentare mi stava accadendo. Vidi un giovane con gli occhiali spessi, la barba dostoevskiana, i capelli lunghi e scomposti. Mi incuriosì. Anche lui era solo. Mi avvicinai al suo tavolo. Scambiammo qualche battuta e poi si presentò: ‘Sono Jerzy Grotowski’”. Sapeva di lui, del suo lavoro? “Avevo vagamente sentito il suo nome: per me era solo un giovane animato da alcuni progetti teatrali. Mi raccontò che aveva lasciato la politica e si era ritirato a Opole, a una decina di chilometri da Auschwitz, in un teatrino piccolissimo dove lavorava con sette attori. Gli dissi chi ero, raccontandogli un po’ della mia vita, e che avevo scoperto la grandezza di Brecht e del Berliner Ensemble. Veniva da un piccolo villaggio e aveva studiato teatro a Mosca, mi disse. Poi mi invitò a visitare il suo teatrino delle tredici file. […] Divenni il suo assistente, e per circa quattro anni restai a Opole. Fui il tramite tra lui e il resto dell’Europa. Jerzy non poteva uscire dalla Polonia. E fuori non era ancora molto conosciuto. […] Quando tornai da uno dei miei viaggi, le autorità polacche mi notificarono che ero persona non grata. Avevo vissuto anni straordinari. Fu un epilogo drammatico. Tornai in Norvegia: non avevo diplomi. Nessuno conosceva Grotowski. Forte di quello che avevo appreso, decisi di creare un mio teatro amatoriale. Dalla Scuola nazionale di teatro di Oslo mi feci dare la lista degli esclusi. […] Li contattai raccontandogli la mia esperienza. Insegnai loro ciò che a mia volta avevo appreso”. Cosa esattamente gli insegnò? “Un teatro dove non si parlava molto, basato soprattutto sul lavoro fisico”» (Gnoli). «Eravamo in cinque nel 1964, io e quattro ragazzi rifiutati dalla Scuola teatrale di Stato a Oslo in Norvegia. […] Fondammo una società per azioni e ce le dividemmo tra di noi, perché la terra appartiene a chi la lavora. Ci demmo il nome di un dio nordico, Odin, che scatena le sue forze oscure per distruggere o elargire conoscenza. Eravamo un minuscolo gruppo amatoriale curioso e ingenuo». «Allestimmo un’opera che ebbe un’accoglienza molto positiva. Un giovane professore danese ci invitò a rappresentarla in Danimarca a Holstebro. […] Arrivammo in quella cittadina, molto religiosa, e battuta dal vento e insidiata dalla sabbia. Facemmo lo spettacolo, e un’infermiera, che gestiva un gruppo di attori dilettanti, parlò al sindaco di noi. Scoprimmo che da Holstebro i giovani se ne andavano. Ce lo disse il sindaco, che nella vita faceva il postino. Ci disse: “Io non so come trattenerli: qui non ci sono attrazioni, non si fa cultura. Però abbiamo comprato una vecchia fattoria a un paio di chilometri dalla città. Io non capisco niente di teatro. Ma ho letto delle buone critiche su di voi. Mi piacerebbe se per un po’ vi fermaste qui”. […] Pensai che era la prima volta che qualcuno mi prendeva in considerazione. Accettai, a una condizione: che fosse un teatro-laboratorio, e che dunque non facessimo spettacolo ogni sera. Bastò una stretta di mano. Seppi che a una ventina di chilometri dalla fattoria Dreyer aveva girato Ordet. Mi sentii investito da una strana euforia». «Holstebro divenne la nostra patria: qui nacquero i nostri figli, qui sono sepolti alcuni di noi, qui crebbero le nostre ali». «Per giustificare i finanziamenti e il fatto che non facevamo spettacoli tutte le sere come altri teatri, organizzavamo attività con le scuole e invitavamo artisti a riflettere sul loro modo di lavorare. […] Una fascia della popolazione cominciò a guadagnare grazie a queste attività. Ci siamo “conquistati” un cittadino dopo l’altro». «I primi anni furono duri. Si lavorava seguendo strade non tracciate. Barba era un autodidatta, sostenuto dall’intelligenza e dalla caparbietà. Imponeva agli attori la dura disciplina di esercizi fisici quotidiani per rompere i cliché della recitazione accademica, ma nessuno sapeva dove avrebbero portato. Oggi quell’apprendistato è alla base del lavoro dell’attore, ma allora era come muoversi in un labirinto. “Avevo l’impressione di sbagliare, e volevo che tutto restasse tra le quattro mura, tra me e i miei compagni. Il training fisico che quotidianamente facevamo agli occhi degli altri era una pazzia. Lavoravamo per otto, dieci ore al giorno, raggiungevamo livelli di fatica inimmaginabili. Persino Grotowski, che comunque fin dall’inizio avevo eletto a ‘mio maestro’ nonostante fossimo quasi coetanei, faceva training al massimo per una o due ore al giorno. Il training fisico non è una ginnastica. Ci sono voluti anni per capire che recitare non è eseguire qualcosa ma reagire a qualcosa, e quanto sia importante trovare la strada per scatenare nell’attore l’impulso a reagire”» (Bandettini). «“Prima del ’68 c’era il teatro al singolare: dopo invece esistevano i teatri, al plurale”. Così Eugenio Barba […] ripercorre la vicenda di quel fenomeno a cui è stato dato il nome di “terzo teatro”. […] Non fu un movimento, perché privo di qualsiasi omogeneità estetica e ideologica, ma piuttosto la multiforme necessità di cambiamento che i giovani portavano con sé. Con una distinzione importante: “C’era chi, con Brecht e Dario Fo, con il teatro voleva fare la rivoluzione sociale e chi, con Grotowski, voleva cambiare se stesso”. Nasce così l’idea di poter fare il teatro con poco, quel “teatro povero che è innanzitutto artigianato” e che necessita solamente di un attore e uno spettatore per far accadere qualcosa di importante, abbandonando le poltrone in velluto e scoprendo la strada» (Lucrezia Ercolani). La compagnia s’impegnò subito «con pudore e audacia a rompere le consuetudini della recitazione, con spettacoli più vivi e moderni, distaccati da ogni altro genere: nella straordinaria stagione teatrale degli anni Sessanta-Settanta La casa del padre, Come! And the Day Will Be Ours, Il Vangelo di Oxyrinchus segnarono il cuore degli spettatori e dimostrarono che era possibile usare il teatro per vivere, per parlare della realtà e per cambiare se stessi» (Bandettini). Una delle consuetudini caratteristiche della compagnia di Barba, quella del baratto culturale, nacque casualmente nel 1974 in Sardegna. «Quando nel gennaio 1974 arrivammo a Cagliari, Pierfranco Zappareddu, […] che ci aveva invitati, ci sconcertò raccontandoci di non avere i soldi per pagarci. Non dovevamo, però, sgomentarci. Aveva amici in altri posti della Sardegna: vitto e alloggio erano assicurati. La mia prima reazione fu di strangolarlo. A malincuore e disperato, accettai. […] Il primo posto dove ci guidò fu a San Sperate, alla casa di Pinuccio Sciola, che ci accolse come se fossimo amici di vecchia data. Lì il gruppo dell’Odin, una decina di persone, dormì e fu nutrito, e nel suo studio di scultore rappresentammo il nostro spettacolo, La casa del padre. Per noi dell’Odin fu un’esperienza sconvolgente. Era la prima volta che mostravamo un nostro spettacolo a spettatori non tradizionali. In questo villaggio diventammo consapevoli che il nostro teatro possedeva la possibilità di un altro tipo di contatto, non solo con lo spettatore, ma con l’intera comunità. […] I nostri spettacoli prevedono sempre un numero limitato di spettatori: La casa del padre solo sessanta. Ma a Orgosolo, fuori della scuola dove presentavamo lo spettacolo, una folla di centinaia di persone esigeva di entrare, tra schiamazzi e lanci di pietra. Il tumulto all’esterno rendeva impossibile ascoltare lo spettacolo per i sessanta prescelti, quasi tutti anziani. Alla fine ci dissero: “Non abbiamo capito quello che avete mostrato, ma cantate bene. Adesso, però, vi mostreremo come si canta”. E cominciarono a cantare in quella tipica maniera sarda. Questa situazione fece una profonda impressione su di me e sui miei attori. Il suo ricordo affiorò pochi mesi dopo, a maggio, a Carpignano nel Salento, dove ci eravamo trasferiti per preparare isolati e in tranquillità un nuovo spettacolo. Ma la popolazione voleva che ci esibissimo. Non avevamo uno spettacolo, ma la situazione di Orgosolo dello scambio dei canti, del proprio patrimonio culturale, fu il punto di partenza del “baratto”: una cerimonia festiva dove due culture si incontrano e riescono a comunicare attraverso canti, danze, storie, giochi, cibi tradizionali. L’incontro con la gente in Sardegna e in Salento provocò questa ri-nascita degli attori dell’Odin dal punto di vista tecnico come anche del modo di usare il teatro nella comunità» (a Walter Porcedda). «Barba aveva avviato un percorso teorico che lo spingerà a studiare le diverse tecniche e tradizioni dell’attore in diversi contesti culturali e sociali, ad avvicinare la ricerca sull’attore e le sue tradizioni alla ricerca sulle persone e le loro tradizioni culturali. L’antropologia teatrale, dirà Barba, è lo studio del comportamento scenico pre-espressivo che sta alla base dei differenti generi, stili, ruoli e delle tradizioni personali o collettive. Succede così che nel 1980 fonda l’Ista (Scuola internazionale di antropologia teatrale)» (Franco Ungaro). «L’Ista è una rete internazionale, una sorta di laboratorio permanente itinerante di antropologia teatrale, che riunisce […] decine di artisti dei cinque continenti, appartenenti alle più diverse tradizioni sceniche, insieme a studiosi delle arti performative, per indagare i fondamenti dell’arte dell’attore e comprendere i princìpi che ne “generano la presenza scenica”» (Franco Acquaviva). «Con gli anni ci trasformammo in Nordisk Teaterlaboratorium, un ambiente internazionale di iniziative nel campo della tecnica dell’attore e dell’uso del suo mestiere nella comunità. […] Il nostro laboratorio ha aperto il cammino a numerose attività: spettacoli in luoghi non convenzionali e per le strade, pedagogia alternativa e ricerca pura, inchieste sociologiche, pubblicazione di riviste e libri, produzione di film, incontri e scambi regolari con gruppi teatrali da varie parti del pianeta, collaborazione con maestri di tradizioni asiatiche e latino-americane e della cultura afro-brasiliana. I nostri attori sono diventati registi, guide di generazioni, forgiatori di avventure». A fine 2020 Barba ha abbandonato la direzione del Nordisk Teaterlaboratorium, mantenendo però quella dell’Odin Teatret. In ogni caso, «Holstebro continuerà a sviluppare la tradizione del teatro come laboratorio artistico e sociale» • Autore di vari libri, tra cui Anatomia del teatro. Un dizionario di antropologia teatrale (La Casa Usher, 1983) e l’autobiografico Bruciare la casa. Origini di un regista (Ubulibri, 2009) • «A Holstebro […] Barba ha sempre continuato a vivere con la sua famiglia. “Judy, mia moglie, ha accettato questa mia ossessione, il teatro, anche quando c’erano cose che non le andavano giù. Grotowski, per esempio. Non le stava simpatico, lo trovava un egocentrico. E quando abitava da noi, per lunghi periodi, lei ne soffriva, ma non me lo ha fatto mai pesare. Fu lei a mantenermi i primi anni dell’Odin. Poi, quando sono arrivati i due figli, ha preferito prendersi cura di loro. Oggi siamo nonni, consapevoli di aver dovuto cambiare molto il modo di immaginare la nostra relazione in tutti questi anni”» (Bandettini) • «Più mi sono allontanato dalla mia terra e dalla mia lingua, più si è distillato in me il senso delle mie origini. Ho lasciato il Sud per riscoprirlo sotto mille raffigurazioni e incontri in mezzo secolo di emigrazione. Nel mio teatro, la camera segreta è la mia infanzia meridionale» • «A parte Grotowski su cosa ha basato il suo teatro? “Jerzy è stato fondamentale, ma importanti furono Stanislavskij, Brecht, Artaud, il Living. Coloro che come Sisifo si sobbarcarono la fatica di far salire il teatro sulla cima del ventesimo secolo. Ma il mio primo maestro, senza che lo sapessi, fu Eigil, il lattoniere che mi accolse nella sua officina ed ebbe fiducia in me. Il mio teatro nasce da quella esperienza e dal desiderio di non arrendersi. La vita che trascorsi in quell’ambiente mi ha fatto capire che i valori artigianali e le relazioni tra eguali sono più importanti delle grandi visioni artistiche. Poi, ciascuno deve saper volare con le proprie ali. Il mio teatro non deve parlare di politica, ma fare politica con altri mezzi”» (Gnoli) • «Uno degli ultimi maestri del teatro del Novecento» (Bandettini). «Una delle figure più significative del teatro del secondo Novecento» (Franco Acquaviva) • «Del teatro si deve parlare al plurale perché il teatro sono le persone che hanno scelto di dedicarsi a questa professione, ognuno a suo modo. In questa immensa ricchezza e varietà, la vera creatività non consiste nel superare i limiti ma, dentro i limiti, nel saper andare in profondità e scavare nuovi spazi che prima non esistevano». «Il teatro è una sfida. Nel mio modo di rappresentare la realtà c’è il metodo, ma poi il resto è libera iniziativa, è improvvisazione su un tema prefissato». «Non importa quanti spettacoli si siano fatti nella propria vita. Creare uno spettacolo succede sempre per la prima volta» (a Massimo Marino) • «Il teatro mi permette di non appartenere a nessun luogo, di non essere ancorato a una sola prospettiva, di rimanere in transizione» • «Cos’è stato veramente l’Odin Teatret? “Un fantasma. […] Un fantasma è un’entità che lascia tracce invisibili che solo pochi vedono e sulle quali pochissimi si orientano per scoprire il proprio cammino”» (Marino) • «Ho seguito la strategia dei cerchi nell’acqua. Ho gettato un sasso che sapevo come e dove scagliare. I cerchi si allargano, smuovono le cose vicine, producono minuscole correnti invisibili. Ma io, che scagliai il sasso, non posso né pretendo di determinare il loro futuro. Come una nuvola proseguo il mio viaggio. […] Non ho eredi né ho un’eredità da lasciare. Il mio insegnamento non si trasmette né si estingue. Evapora. E cade come pioggia sulla testa di chi non se l’aspetta».