Adesso, il 40enne Evra, ex straordinario terzino della Juve e della Francia, ha deciso di rivelare tutto, incluso alla sua ignara madre “in lacrime”. Questo perché «mi sono pentito di aver taciuto. I bambini devono denunciare queste atrocità». È il primo, drammatico capitolo del libro, che però contiene anche altre sorprese: sulla Juve, sul Manchester United, sugli esordi a Marsala.
Da bambino lei ha vissuto problemi economici, gang giovanili, spaccio, violenze sessuali. Come fa a essere sempre positivo?
«Perché non ho mai cercato scuse. Mia madre mi ha educato così. Credo in Dio. Credo nell’energia positiva. Per questo I love this game».
Nel libro si intuisce quanto sottile sia la linea tra successo e fallimento per un calciatore. Quando lei nel 1998, a 17 anni, si trasferì addirittura al Marsala, in Sicilia, l’allenatore Frosio “non credeva in lei”.
«Il talento, anche se hai la classe di Messi o Ronaldo, per un calciatore conta solo il 20%. Il 30% è etica del lavoro. Il 50% forza mentale. Io vengo dalla strada. Ciò mi ha fortificato e non mi ha fatto mai soffrire alcuna pressione. Oggi, invece, le nuove generazioni pensano più alla fama e ai soldi, hanno tutto e subito. Quando a Marsala ebbi una tuta ufficiale, mi sentii in paradiso. Oggi invece, se un calciatore ha un problema, si lamenta con l’agente. Ma li capisco: hanno un’esposizione sui social pazzesca».
Marsala le ha salvato la vita?
«È stata la mia fuga da un tunnel, la mia seconda famiglia».
Nel libro racconta come a Marsala per la prima volta abbia subito il razzismo, da parte di un anonimo compagno di squadra.
«Non nasciamo razzisti. È un problema di istruzione, sociale. Il calcio lancia molti messaggi, ma non è abbastanza».
Cosa si dovrebbe fare?
«Contro la Superlega, migliaia di tifosi sono scesi in strada, riuscendo a fermarla. Sarebbe bello se tutto questo si facesse contro il razzismo. I social media possono maggiore filtro. Infine, fino a quando non si comminano forti multe ai razzisti, non cambierà mai nulla».
Nel libro sottolinea le differenze tra il calcio italiano e altri Paesi.
«In Italia ci si allena troppo. Se si trovasse l’equilibrio giusto, le squadre italiane potrebbero vincere già spesso la Champions. Invece, si spinge tutto all’estremo. Per me è un segno di insicurezza. Il mio primo anno alla Juve, perdemmo la Champions in finale. Sono convinto che quella coppa avremmo potuto vincerla se non fossimo arrivati così sfiniti, fisicamente e mentalmente».
Però Allegri sembra rilassato.
«Allegri ti ammazza di lavoro, ma è furbo perché te lo impone con il sorriso».
Nell’autobiografia lei racconta la svolta del primo anno di Allegri: la squadra pensava ancora a Conte, arrancava. Poi lei fece un discorso ai giocatori e arrivò la vittoria di Napoli per 3-1.
«Dissi: “Ragazzi, in campo ci siete sempre andati voi, non Conte. La Juve è un’istituzione. Sveglia!”. Buffon, Chiellini e Barzagli rimasero scioccati: si resero conto di quanto amassi la Juventus».
Cosa ne pensa del ritorno di Allegri alla Juve, tra alti e bassi?
«Come ho detto ad Agnelli, Allegri non sarebbe mai dovuto andar via nel 2019».
Perché?
«Per la passione e l’amore che nutre per la Juve, nonostante l’odio iniziale di molti tifosi. Allegri è un vero “gobbo”. Poi certo, tornare non è mai facile. Gli ho detto: “Devi riadattarti anche tu, soprattutto ai giocatori più giovani. Non essere troppo duro con loro”».
Proprio la nuova generazione della Juve desta dubbi.
«Oggi in molti giovani mancano carattere, personalità, creatività.
Inoltre, in generale, vengono sempre più trattati come robot, anche nei passaggi. Nel calcio moderno, un Ronaldinho che fa di testa sua sarebbe un problema».
Lei è stato allenato da tre straordinari allenatori come Allegri, Ferguson e Deschamps.
«Non dimenticare Sandro Salvioni!».
Il suo allenatore italiano al Nizza nel 2000.
«Fu il primo a dirmi: “Patrice, diventerai il terzino sinistro più forte del mondo”.“E perché?”. E Salvioni: “Perché odi difendere, ma io ti costringerò ad amare il ruolo di terzino”. Mi insegnò l’umiltà.
Deschamps invece mi ha fatto capire che nel calcio la vera star è il gruppo, e non il calciatore. Ferguson, infine, mi ha reso un robot, una macchina: con lui vincere era normale. Non mi godevo mai a pieno le vittorie: pensavo sempre al prossimo obiettivo».
E Allegri?
«Ha un fiuto incredibile. Più di Ferguson. Allegri sa sempre come andrà una partita prima che cominci. Al ritorno degli ottavi di Champions 2015, a Dortmund, predisse tutto. Pazzesco. Prima del match ci disse: “Questa è un’amichevole”. Mentre qualche giorno prima contro il Genoa ci urlava contro come se fosse una finale di Champions. Allegri è così: è ossessionato dalle piccole, non si preoccupa dei big match».
Ma lei perché la Juve l’ha lasciata dopo soli due anni e mezzo?
«Dopo gli europei 2016, Allegri mi fa: “Patrice, non devi giocare tutte le partite, giocherai i big match”. Ma pure a Ferguson dissi: “Boss, se mi riposo, muoio”. Chiellini ancora oggi è arrabbiato con me. “Pat, ma perché ci fai questo?”. Per Giorgio avrei dovuto giocare nella Juve a vita. Ma io devo sempre avere passione e impegno al 100%».
Perché ancora oggi lei ama così tanto la Juve?
«Perché la Vecchia Signora è nel mio Dna, come lo United. Ti innamori di lei, della sua storia, dell’etica del lavoro, della mentalità vincente. Di tutto».
E invece perché il suo amico Cristiano Ronaldo ha lasciato la Juve?
«Cristiano ha bisogno di amore e rispetto. Invece, alla Juve stava diventando il capro espiatorio. Le critiche in Italia a Ronaldo sono state ridicole e un po’ ipocrite. Un altro errore è stato quando Allegri ha detto in conferenza: “Cristiano non giocherà tutte le partite”. Non c’è bisogno di dire certe cose in pubblico. In ogni caso, l’unico vero amore di Cristiano è il Manchester United».
«Perché a Manchester nessuno si permetterebbe di criticarlo. La Juve avrebbe dovuto capire che Cristiano esige amore e rispetto. Quando li riceve, Cristiano dà la vita per te».