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 2021  ottobre 22 Venerdì calendario

Luigi Serafini e il Codex delle meraviglie

"Un momento di concentrazione, perché insomma devo intanto cercare di attraversare questi quarant’anni e ritrovarmi nel 1981”. Luigi Serafini, seduto su un trono, accanto a un cane immobile – perché è una statua – torna a quel 1981 quando, a 32 anni, pubblicò per l’editore Franco Maria Ricci il Codex Seraphinianus: un’enciclopedia di tutte le cose che non sono in Terra, un libro illustrato che prendendo spunto dal mondo vegetale e animale – e liberando l’alfabeto, inventando cioè un lingua segreta anche all’autore stesso – crea un’altra origine dell’universo, con anatomie, agricolture e architetture soprannaturali. In quarant’anni il libro è diventato opera di culto: in Cina gira un’edizione contraffatta che Serafini espone su un leggio; le immagini hanno avuto nuova vita sul web, “con video con più di un milione e duecentomila visualizzazioni in due mesi”, dice, e poi sotto forma di tatuaggi. “È un libro fatto sulla pelle della gente che si sta muovendo sul pianeta. Sarebbe bello radunarli tutti in un grande stadio per creare un Codex vivente”.
Oggi il Codex Seraphinianus esce per i tipi di Rizzoli con l’aggiunta di alcune tavole e un libretto che ne ripercorre la genesi. Incontro Luigi Serafini a casa sua il giorno in cui gli giungono la copia staffetta del libro e un avviso di sfratto da una proprietà che vuole far altro di questo palazzo al centro di Roma: l’ingresso coincide con l’antico accesso alle Terme di Nerone e “una parete della mia libreria confina con il palazzo del Senato” dice Serafini aprendo una finestra su uno dei suoi  multiversi quotidiani. A rischio sfratto sono anche i tanti abitanti immaginari di questo regno tridimensionale del Codex: nel labirinto casalingo si avvicendano scenografie per teatri dell’assurdo, ceramiche da paese delle meraviglie, un presepe in una scatola di montaggio, una locandina realizzata per La voce della luna di Fellini. Fuori dalla finestra la visione del Pantheon, sarà reale? “Non è lo sfratto di una persona” dice Serafini, “è la distruzione di un’opera”.
Una gatta sulla spalla
Così l’artista ricorda la nascita del Codex: “Era la Roma degli anni 80, appena uscita dagli anni di piombo, mi mantenevo disegnando per gli studi di architettura. C’erano ancora i gatti, circolavano liberamente. Come compagna di lavoro avevo una gatta bianca trovata raminga, un po’ era vera e un po’ era fantasticata. Si appollaiava sulle mie spalle e si addormentava quando disegnavo, interpretavo i sogni che mi trasmetteva attraverso la ghiandola pineale”.Ecco alcuni di quei sogni: un soldato scomponibile perché antimilitarista, popolazioni indigene con segnali stradali come scudi, macchine per arcobaleni, uomini ibernati in blocchi di ghiaccio usati come mattoni di un’arcata, “l’ingresso di una sorta di cimitero, sarebbe bellissimo”. Un uomo e una donna su una branda, lui sopra di lei: in sei movimenti si fondono in un coccodrillo. “L’immagine nacque dopo aver fatto l’amore con una ragazza. Lei andò via, io mi dissi “che strano” e disegnai”. C’è solo una frase leggibile nel Codex, un passaggio da Albertine disparue di Proust scritto su una tela da un uomo che ha una mano a forma di stilografica. “Ero immerso in una dimensione amanuense, e amanuense era anche Proust. Correggeva in modo bizzarro: incollava un pezzo di carta sulla parola errata e il volume s’ingigantiva. Si rifaceva alla tecnica dei paper roll praticata nei conventi: pezzettini di carta ritagliati a spirale che divenivano decorazioni intorno alle immagini sacre”. Serafini cita anche Locus Solus di Raymond Roussel, “un libro che ho mangiato, proprio così, prendevo una pagina e me la mangiavo. Mi influenzò molto per le “macchine celibi” che ho immaginato nel Codex”.  

L’alba della rete
Luigi è un’enciclopedia che si apre e ogni domanda porta a molte risposte e ad altrettante domande. Potrebbe essere un uomo-rete, con tante finestre che si aprono, e per tornare alla finestra originaria ci si perderebbe nella cronologia. Negli anni 70 trascorre quattro mesi in America, disegna diorami per il museo di storia naturale di Chicago e viaggia. “Le città erano nodi in cui i giovani si spostavano portando immagini, concerti, ci si abbeverava nei nuovi fenomeni editoriali, c’era un movimento beat, ma più nel senso di bit. Internet nasceva con il progetto Arpanet, e io ero fissato con l’idea che i miei disegni non dovessero passare per il circuito chiuso delle gallerie d’arte, ma dovessero diventare un libro e circolare in una rete, che non c’era ma che sarebbe arrivata”.
Tornato in Italia si chiude in casa: “A un amico che mi invitava a uscire dissi che stavo facendo un’enciclopedia. Un po’ era vero, un po’ era una scusa. In questa clausura avevo la sensazione di copiare qualcosa, proprio come un amanuense”. Compreso il celebre alfabeto inventato: “Siamo imprigionati nelle lettere che ci hanno insegnato a scuola. A uno non piace la B, ma quel movimento è obbligato a farlo e la scrittura si inceppa. Nel mio caso è come se mi fossi liberato dagli alfabeti e potessi scrivere senza blocchi imposti. La mia grafia fa abbastanza schifo, ma nel Codex è armoniosa. Come se avessimo tutti una scrittura nascosta, che viene ingabbiata”.
Decodificare il Codex con l’autore è intuire l’autobiografia che vi è nascosta. Una tavola mostra un architetto che costruisce una casa con un mazzo di carte: “Sono io. Le carte sono le piacentine, con cui mio nonno m’insegnò a fare il solitario. Mia nonna invece mi proteggeva da mio padre, che rappresentava il razionale, l’ingegnere. Lei assecondava la mia vocazione al disegno comprandomi le matite di nascosto. Viveva ad Amelia, in Umbria, e un giorno portò una cesta con dentro una gallina che stava covando e la sistemò in salotto, tra un mobile e un tappeto. M’incantavo nel vederla immobile, così finta e buffa. Poi ci fu la schiusa e i pulcini giravano per casa. Questo meccanismo di spostamento di un contesto, come un salotto-pollaio, c’è più volte nel Codex. Così come ci sono tanti uccelli e pesci, mi hanno sempre affascinato perché vivono in altre dimensioni, dell’aria e dell’acqua, che noi non conosciamo”.

Il cerchio magico
Per proporre l’enciclopedia a Franco Maria Ricci Serafini si appostò sotto la casa editrice “in una 500, con una sua foto in mano. Vederlo entrare fu un’apparizione. Lo seguii per le scale, alla segretaria non so che dissi, ma la scavalcai e mi ritrovai direttamente nella stanza dell’editore. Ogni tanto uno fa delle cose inimmaginabili seguendo le pulsioni, come i pesci ti muovi e non sai perché però poi finisci nel posto giusto. Il Codex divenne improvvisamente popolare e fui proiettato in una specie di cerchio magico, ero ammutolito, non capivo che avessi fatto. Incrociai Calvino, Manganelli, Fellini. Ogni volta che Sciascia veniva a Roma mi chiamava e lo accompagnavo nelle librerie antiquarie. Come da un sasso nell’acqua, quel cerchio di persone si è sempre più espanso fino ai tatuaggi di oggi”.
Cercando di riavvolgere il nastro, di saltare in quei cerchi concentrici temporali, pranziamo in un ristorante in via di Sant’Andrea delle Fratte, dove c’era la mansarda in cui disegnò il Codex e la libreria dove, letteralmente,  ebbe l’illuminazione che diede la scintilla: la strada era buia, nell’unica vetrina illuminata c’era una copia del Bestiario di Aloys Zötl, anch’esso edito da Ricci. Ora è l’agenzia Ultraviaggi.
Si diffonde nella via un canto di uccello, una cantilena si fa verso di gallina, di cavallo e solfeggio: “ni-ni-ni-no; qua qua qua; hiii; mi-mi-mi”. A emettere quei versi è un ragazzo di circa vent’anni, che li accompagna con l’intrecciare brulicante delle mani. “È un ragazzo uccello!” esclama Luigi. “Una volta il canto degli uccelli era considerato una lingua segreta, da intermediari con i cieli”. È l’ultima trasmutazione del Codex: in realtà.