La Stampa, 28 ottobre 2021
Intervista a Gabriele Mainetti
Una dichiarazione d’amore per il cinema, fatta da un regista 44enne che, mentre tanti continuano ad annunciarne la fine, spiega perchè non morirà mai: «Il rito della sala è unico, irreplicabile, non può essere paragonato agli altri schermi, non possiamo perderlo. Il cinema rende tutto gigante, immagini ed emozioni. È whisky puro, concentrato, deve per forza contenere le cose più belle». Mentre il kolossal Freaks out arriva nelle sale, Gabriele Mainetti non nasconde l’emozione: «Ci ho lavorato per quattro anni, dentro c’è tutto quel che ho studiato, la mia vita, i miei sogni. E’ fatto per il pubblico, l’ho girato con l’idea di mettere in scena qualcosa che avrei voluto vedere».
Dopo l’esordio favoloso di Lo chiamavano Jeeg Robot, la seconda volta poteva essere difficile. Ha avuto paura?
«Sono molto più paralizzato adesso. Prima ancora che Jeeg uscisse io e Nicola Guaglianone avevamo buttato giù Freaks out . Quando l’abbiamo proposta ci hanno detto che l’avremmo potuto fare solo se Jeeg avesse avuto minimo 300mila spettatori. Ne ha fatti oltre un milione. Freaks out è figlio del nostro istinto più puro, una storia pensata in totale libertà».
Nel film c’è una figura femminile importante, Matilde, la ragazza «elettrica» .
«Le donne nella mia vita hanno avuto un ruolo fondamentale, mi hanno sempre messo davanti alla necessità di cambiare. Matilde è la punta di diamante della storia, eppure non è frutto di una scelta programmatica, ma proprio dell’istinto. Abbiamo pensato, inconsciamente, che, fosse la più outsider di tutti».
Di sicuro le avranno chiesto di fare una serie. E’ così?
«Sì, certo, ma non mi interessano, potrei farle solo se si trattasse di contenuti eccezionali. Mi piacciono molto, per esempio, le serie dai grandi romanzi. Penso che un film come Novecento avrebbe potuto essere una serie. La tecnica di tenere lo spettatore in ostaggio, annacquando il discorso emotivo e narrativo, con tanti personaggi di cui, magari, solo pochi, risultano interessanti, non mi attira. Poi, certo, la tv ha il tempo di descrivere personaggi da tante prospettive».
Lei è stato descritto come il regista italiano più vicino al linguaggio dei fumetti. Da dove nasce questa attrazione?
«In realtà io di fumetti ne ho sempre letti pochi, al massimo qualche Dylan Dog, e soprattutto perché c’era un po’ di sesso. Sono stato un figlio del mio tempo, per me erano più importanti i cartoon, come, appunto, Jeeg Robot. Poi, da adulto, mi sono avvicinato al mondo dei manga, dove la divisione tra buoni e cattivi non è manichea, basta pensare a Devilman. Insomma, tra Devilman e Spiderman, chi mai sceglierebbe Spiderman?».
Ha visto la serie Squid game?
«Solo un paio di puntate, ma sono abbastanza esperto del cosiddetto "gioco mortale", dai tempi di film come Battle Royal di Takeshi Kitano e As the Gods will di Takeshi Mike. E’ un genere che conosco, ma l’idea di replicare la violenza, è un fatto drammatico. Dopo il Covid i ragazzi sono frustrati, ha preso piede un’accidia involontaria che ha bisogno di essere sfogata. Purtroppo, da questa situazione, sono emersi picchi di malattia che forse sarebbero venuti fuori anche prima. Le fobie e le nevrosi sbucano come funghi in momenti di grande difficoltà e di sicuro la pandemia ci ha molto provato. Il cinema e la tv non devono mai monopolizzare la nostra vita al punto da farci pensare di essere parte di un gioco e di voler replicare una roba folle. Se questo succede, significa che c’è un problema pre-esistente, che va indagato, e che non riguarda solo la visione di una serie. Si tratta di persone che stanno male».
La filosofia di Freaks out è proprio l’opposto . Perchè?
«Perchè i protagonisti, codardi, egoisti e impauriti dalla situazione in cui si trovano, capiscono che devono rimboccarsi le maniche e dare una mano agli altri, compiendo gesti di eroismo. Spero che la storia possa offrire una valida alternativa a un gioco mortale».