la Repubblica, 28 ottobre 2021
Leggi Erodoto e capirai cos’è la Libia
I primi coloni arrivarono su piccole imbarcazioni, provenienti dall’isola di Thera, oggi Santorini. Fuggivano miseria e carestia, e avevano preso il mare facendosi guidare da Apollo, di cui erano adoratori. Dedicarono alla sua ninfa preferita una città, Cirene, in corrispondenza di un foro nell’alto dei cieli che assicurava pioggia e fertilità. La Cirenaica, da allora, divenne un avamposto ellenico sulle coste africane. Ancora oggi, a Bengasi, certe cose possono avere un sapore olimpico. I coloni greci non si spinsero mai oltre la Sirte. Non solo perché dopo il suo mare agitato c’erano le Colonne d’Ercole, al di là delle quali si rischiava di finire come Atlantide; ma perché i fenici del litorale occidentale adoravano una divinità spietata, una certa Tanit, cui venivano sacrificati i bambini. Le loro città, inclusa Tripoli che ne assommava tre, rimasero puniche anche sotto Roma. Furono mitiche anch’esse, come Cirene, ma poco inclini alla dolcezza orientale.
Anche quei primi abitanti del litorale, proprio come quelli che vennero dopo di loro, non ebbero mai il coraggio di lasciare la costa per le profondità sahariane. Hic sunt leones era annotato sulle mappe romane in corrispondenza dell’odierno Fezzan; e in effetti i Garamanti che lo abitavano, nelle loro fortezze di sale, erano considerati dai coloni del litorale quasi degli eremiti, una razza selvaggia più vicina al mondo animale che a quello degli umani.
Insomma, nella Libia raccontata da Erodoto tre millenni fa, esisteva già un caleidoscopio di popoli e di culture. Immigrati greci e fenici; legionari e coloni romani; popoli indigeni come i Libii e gli Etiopi. Con i dovuti distinguo, ricorda abbastanza la Libia di questi ultimi anni: dove una poderosa legione straniera composta anche di turchi, e mercenari russi, siriani e africani si è asserragliata nelle pieghe della Cirenainca, della Tripolitania e del Fezzan. Chi vuol capire cosa sta succedendo oggi in Libia deve evitare di comportarsi da “provinciale del tempo” potremmo dire parafrasando T.S. Eliot. Dovrebbe invece varcare le sue frontiere, per imparare da quelli venuti prima. E soprattutto dovrebbe leggere le Storie di Erodoto e rendersi conto che in quel paese, da tempo immemorabile, non hanno mai smesso di convivere tante tradizioni culturali, tante realtà politiche e tante identità profondamente diverse. In epoca romana ad esempio non solo la Tripolitania e la Cirenaica venivano amministrate in modo differente, ma per sancire la distanza tra la Libia costiera e quella sahariana venne creato addirittura il limes tripolitanus. E neanche la grande conquista araba riuscì a renderne omogenei i territori, se è vero che a Ibn Battuta, che li attraversò all’inizio del XIV secolo, la Tripolitania apparve come un’estremità del Maghreb, la Cirenaica un preludio d’Oriente, e il Fezzan una specie di limbo verso l’Africa sub-sahariana.
Il problema è che certe cose le ha decise per sempre la geografia, c’è poco da fare. Che poi è il motivo per cui la grande distesa di mare e sabbia che costituisce la Sirte è da sempre il confine naturale tra est e ovest, né più e né meno di come le alture dei vari Jebel lo sono tra il Mediterraneo e il Sahara. Dovettero prenderne atto anche i Turchi e l’Italia coloniale, che nulla poterono contro le rughe di roccia e sabbia che solcano il deserto libico. E di sicuro lo sapeva bene anche Gheddafi, artefice di un notevole maquillage che ovviamente non gli è sopravvissuto.
Tutto questo non certo per sostenere che la Libia non possa essere unita e indivisibile, ma solo per dare il senso di quanto sia complicata la sfida. E anche per ricordare con Eliot che se il presente è sempre esistito, allora è evidente che interrogarsi su come consolidare un cessate il fuoco, come restituire al popolo libico sovranità, come integrare Tripolitania e Cirenaica, come coinvolgere il Fezzan in un progetto statuale, o come gestire i confini con Ciad, Niger e Sudan, significa anche cimentarsi con antichi enigmi irrisolti.
Saranno questi i dossier sul tavolo delle diplomazie riunite a Parigi il 12 novembre prossimo, su iniziativa francese, tedesca e italiana. Con al primo posto il processo elettorale e il ritiro di forze e mercenari stranieri. Turchi e russi, anche loro al tavolo, studieranno bene le proprie mosse, perché nessuno rinuncia a un vantaggio tattico. Mentre i libici dovranno anzitutto dimostrare di poter allargare il consenso interno, altrimenti, lontano dai riflettori internazionali, c’è sempre il rischio che riprendano fiato le faide identitarie dalle parti di Tripoli, Misurata, Tobruk e Bengasi.
Ecco, le identità: secondo Predrag Matvejevi? sono loro la malattia del Mediterraneo, frutto della storia, delle religioni e dei troppi miti che i suoi popoli si portano dietro. È l’“identità dell’essere” che impedisce di lavorare insieme, di ascoltare l’altro. Ed è sempre lei che favorisce lo scontro anziché l’incontro. Al suo posto, diceva Predrag, ci vorrebbe più “identità del fare”, la capacità di ritrovarsi intorno ai progetti: che su questo mare però è sempre stata una chimera.
Che a volte il “fare” possa avere la meglio sull’“essere” è stato comunque dimostrato di recente proprio dai militari libici appartenenti agli opposti schieramenti, che all’interno del gruppo di lavoro 5+5 hanno siglato il cessate il fuoco. Non viene violato da un anno, e la sua tenuta ha reso possibile riaprire, l’estate scorsa, la strada costiera che collega l’est e l’ovest del paese. I maligni sostengono che dietro ci sia lo zampino di Ankara e Mosca, ma è innegabile che stavolta anche i libici abbiano fatto la loro parte.
Rimboccarsi dunque la maniche nel segno del “fare”. Ecco la missione della diplomazia internazionale in Libia nei prossimi mesi. Spingendo all’angolo chi è parte del problema, lavorando con tutti quelli interessati a trovare le soluzioni, e soprattutto con un occhio puntato sul Sahel, poiché quello libico è anche un dossier africano. Tra l’altro i “barbari” che abitavano oltre il Sahara al tempo di Erodoto non erano certo una minaccia globale. Al contrario degli islamisti che lo infestano adesso, i quali non vedono l’ora di emulare i cugini afghani e farla finita una volta per tutte con l’Occidente.