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 2021  ottobre 28 Giovedì calendario

Intervista a Diego Abatantuono

«Se non avessi fatto l’attore? Credo avrei aperto non un chiringuito, ma un ristorante, un locale. Mi piace stare con la gente, farla divertire, raccontare». Diego Abatantuono lo ha fatto in oltre ottanta film. Oggi in sala l’ultimo, «Una notte da dottore» di Guido Chiesa, è un dottore da aggiungere alla sua collezione di tipi poco edificanti. 
«Un merdaccia, diciamolo. Un tipo burbero, la vita è andata per conto suo: la moglie sparita, un figlio problematico, vent’anni in Africa. Poi torna per mantenere nuora e nipote ma non sa esprimere i sentimenti». 
Che tipo è Frank Matano? 
«Ha talento e intelligenza. La sua partenza può sembrare, anche se l’epoca è diversa, un po’ quella che ho fatto io con i film comici». 
Girato a Roma durante la pandemia. Come si è trovato? 
«A Roma sto bene. Ci sono venuto le prime volte a 15-16 anni, quando facevo il tecnico per i Gatti di Vicolo Miracoli. Lavoravamo al Teatro delle muse o al Tenda, quando facevano spettacoli, con cena a seguire, Renato Zero, Stefano Rosso, Adriano Pappalardo, la Schola Cantorum. Dormivamo in qualche alberghetto o a casa di qualcuno. Allora era meravigliosa, era meravigliosa l’Italia». 
Rimpianti? 
«Quella bellezza si è incrinata. E allora non c’erano ancora le zanzare. Ora vivo con due di quattordici anni: le porto a scuola, vedono la tv con me, ho fatto amicizia...». 
È stato a quelle cene che conobbe Arbore che venne poi al Derby a proporle «Il Pap’occhio»? 
«Non passavo inosservato. Il mio lavoro in realtà non era fare il tecnico: soffrivo di vertigini, ne soffro ancora, salire su una scala barcollante non faceva per me. Avevo 15 anni, avevo smesso di andare a scuola; i Gatti invece 20, appena finito il liceo. Venivano da Verona, provinciali acculturati, mentre io cittadino ero più smaliziato di loro. Cinque anni con loro, una scuola. Ero il quinto del gruppo. Se tu reggi la tavolata con i Gatti, Villaggio, Renato, sei già a buon punto. Già se riesci a esserci seduto conta: al Derby mi ricordo gente che cercava di intrufolarsi e invece veniva schienata. Sono autodidatta, l’ignorante più colto che abbia mai conosciuto, supero anche Celentano». 

E Arbore, dunque? 
«Era venuto al Derby, mia mamma Rosa stava al guardaroba. Iniziavo a essere conosciuto, ma non facevo tv, bisognava venire a Milano. Le ha chiesto di me. E lei: “Chi, quello? Ma è un deficiente, lasci stare”. Mi diceva: ma non ti vergogni a dire quelle cose lì? Io ero contento che facessero ridere Cochi, Renato, Beppe Viola, Jannacci. A me interessavano che ridessero loro». 
Con sua madre andava al cinema. 
«Papà andava al bar, non si sa se era proprio il bar, si profumava molto, la mamma chiedeva perché. E noi andavamo al cinema a vedere un bel “cappa e spada” o i Maciste, o i western. Una sera lo abbiamo trovato sotto che telefonava, la telefonata fatta al bar tutto profumato era strana. Ha provato a dire che stava chiamando sua madre. “A quest’ora? Mi dia un gettone. Sciura Maria, ‘l gha ciama’ el Matteo? No?”. (Mia nonna era trilingue, pugliese, italiano e milanese). Ha detto un “Vergogna” che ancora mi ricordo. E anche una pedata nel culo. Lui rideva, per reazione». 
Il suo terruncello va per i 45 anni. 
«Era un disintegrato che voleva integrarsi, milanese al 100%. Un’iperbole ma esisteva davvero». 
Per tornare al ristorante, chi ha cucinato meglio al «Dinner club»? 
«Cracco, ha fatto tutto lui».