Corriere della Sera, 28 ottobre 2021
L’Europa insensibile su Taiwan
Attenta Europa: la Cina è vicina. Ancor più vicina è l’isola di Taiwan, la cui sovranità è esplicitamente messa in discussione dal regime di Xi Jinping. Da fine agosto, dal giorno successivo all’evacuazione dell’ultimo soldato statunitense da Kabul, la Cina ha messo in chiaro che intende ricongiungere alla «madrepatria» quel lembo di terra che nel sedicesimo secolo i portoghesi denominarono Formosa. Lì, su quell’isola, riparò il capo del Kuomintang Chiang Kai-shek quando, nel 1949, fu sconfitto e a Pechino trionfò la «rivoluzione comunista» di Mao. Gli Stati Uniti in quell’occasione non fecero mancare a Chiang la loro solidarietà: Taiwan (con i suoi pochi milioni di abitanti) fu riconosciuta dalle diplomazie occidentali come legittima rappresentante di un miliardo di cinesi e occupò il seggio della Cina alle Nazioni Unite fino al 1971. Il regime di Chiang Kai-shek nella piccola isola fu dispotico ancorché meno di quello maoista e uno dei meriti del presidente americano Richard Nixon fu quello di aver aperto (con l’aiuto di Henry Kissinger) la via al termine della quale l’ambasciata degli Stati Uniti in Cina avrebbe lasciato Taipei per trasferirsi a Pechino. Seguita (in qualche caso preceduta, di poco) dalle rappresentanze diplomatiche di tutti gli altri Paesi amici di Washington.
Chiang morì nel 1975, un anno prima di Mao. Suo figlio Chiang Ching-kuo «regnò» anche lui fino alla morte avvenuta nel 1988.
Dopodiché la Repubblica di Taiwan divenne veramente tale, la Cina continuò a rivendicarne il possesso ma fino a poco tempo fa era parsa accontentarsi di una pacifica convivenza. È stato Xi Jinping, galvanizzato per la facilità con cui il mondo intero gli ha fin qui consentito di piegare Hong Kong, a risollevare la questione. In occasione del centenario della fondazione (nel 1921) del Partito comunista di cui è segretario, Xi Jinping ha ribadito che entro il giorno in cui cadrà il secondo centenario (quello della nascita, nel ’49, della Repubblica popolare cinese) Taiwan tornerà alla Cina. Dopo la ritirata di Biden dall’Afghanistan, Xi ha poi lasciato intendere di voler accelerare i tempi: il 1° ottobre del 2049, quando cadrà l’anniversario della presa del potere comunista a Pechino, l’annessione di Taiwan dovrà essere cosa fatta e ampiamente digerita.
Nelle ultime settimane decine di aerei cinesi (non meno di 150) hanno preso a violare gli spazi aerei taiwanesi. La Cina per di più si è fatta minacciosa in tutte le terre contese ai propri confini. Alle proteste dell’India ha risposto per vie informali (un articolo sul giornale ufficiale del regime Global Times ) sostenendo che le reazioni di Nuova Delhi non erano «in linea con la sua forza». Dopodiché Xi Jinping ha disertato tutti i consessi internazionali, compresi i summit per via telematica: ad esempio il G20 sull’Afghanistan convocato da Mario Draghi. Il nuovo timoniere cinese non andrà neanche, la prossima settimana, all’incontro di Glasgow, alla Cop26 sul clima. Biden ha reagito pubblicamente ricordando per ben quattro volte, l’ultima ieri sera, e con toni sempre più marcati che gli Stati Uniti sono impegnati a difendere l’autonomia di Taiwan. Anche con un intervento armato.
A questo punto Xi Jinping ha calato il proprio asso: un film. Un film? Di più: un kolossal. Nelle sale di Pechino è uscito (ottenendo anche un discreto successo di pubblico) «La battaglia del lago Changjing» in cui si rievoca un episodio della guerra di Corea (1950-1953). Fu uno scontro armato che si prolungò per sedici giorni, tra il 27 novembre e il 13 dicembre del 1950. L’unico in cui entrarono in collisione diretta i militari cinesi, guidati dal generale Song Shi-lun, che sostenevano la Corea del Nord, e gli americani che combattevano sotto le insegne dell’Onu. I primi, centoventimila, ebbero la meglio su un contingente di trentamila uomini. Le cronache occidentali registrarono quello scontro come la «battaglia del bacino di Chosin» mettendo in risalto come gli americani, pur sconfitti, riuscirono però a rompere l’accerchiamento di Song Shi-lun. E facendo rilevare che i cinesi registrarono molte più perdite degli occidentali. In ogni caso il messaggio del film è stato chiaro: «Se voi americani deciderete di soccorrere in armi l’isola di Taiwan, farete la fine che avete fatto settantun’anni fa su quelle rive lacustri».
Ma, al di là della propaganda o delle dispute storiografiche sulla guerra di Corea, quel che conta è che nella regione si registra un crescendo di aggressività al quale l’Europa guarda, distratta, quasi si trattasse di una cosa lontana. Verrà poi il giorno in cui, come è accaduto per l’Afghanistan, i Paesi europei si lamenteranno per non essere stati adeguatamente informati di quel che stava accadendo tra il mare cinese orientale e quello meridionale. E, dopo la sorpresa, faranno a gara nel loro sport prediletto, quello di candidarsi a predisporre nelle proprie capitali il «tavolo della pace».
Stavolta però si tratta di propositi troppo furbi ed eccessivamente ottimisti. Tutto quello che c’è da sapere sulla crisi di Taiwan è lì, sotto gli occhi di tutti. Basta guardare. E se c’è un tempo per fare qualcosa di utile a salvare la pace (assieme al diritto dei taiwanesi di continuare a vivere in libertà), bene, quel momento è adesso.