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 2021  settembre 29 Mercoledì calendario

Biografia di Renato Zero (Renato Fiacchini)

Renato Zero (Renato Fiacchini), nato a Roma il 30 settembre 1950 (71 anni). Cantautore. «Nella mia nudità coperta di piume dovevo cantare e rappresentarmi. Non è che con le piume facessi il clown: cantavo la solitudine, le problematiche della periferia. Le paillette mi hanno offerto l’opportunità di far ascoltare le mie parole, sono state un mezzo di locomozione per far transitare idee, fede, un modo di essere e di pensare» • Quarto figlio, dopo tre femmine (l’ultimogenito, Giampiero, sarebbe nato dieci anni più tardi), di un poliziotto («undicesimo figlio di una stirpe di pastori marchigiani») e di un’infermiera, rischiò la vita a poche settimane dalla nascita a causa di una grave forma di anemia emolitica. «Io sono un miracolo ambulante: sono nato col fattore Rh negativo ereditato da mia madre, mi cambiarono il sangue con quello donato da un frate». «Io ho avuto due genitori amabili, due pigmalioni. Sono stati i primi a credere in me» (a Claudio Biazzetti). «Ho avuto tre sorelle e parecchie zie: una famiglia matriarcale». «Tre zii preti e un quarto intellettuale comunista (Mario Tronti)» (Marco Travaglio). «Ero un bambino mascherato da adulto. Sono nato a Roma, in via Ripetta, dove vivevano principi, marchesi, alta borghesia e pochi bimbi. Ogni giorno mia nonna mi portava da parenti e amici, tutti anziani, e io facevo il possibile per non deluderli: ero tutto carino, compostino. […] Ho studiato dalle suore del Sacro Cuore della Trinità dei Monti» (ad Alessandro Ferrucci). «La prima emozione musicale della mia vita è stata in chiesa, da piccolo, con l’organo. Ero affascinato da chi sfiorava i tasti, inseriva registri, faceva correre i piedi sulla pedaliera. Non l’ho mai dimenticato» (a Roberto Gobbi). «Renato aveva dodici anni, era in auto con suo padre Domenico (poliziotto) sulla via Cristoforo Colombo, quando si affiancò una Giulietta con una donna al volante. “Era Anna Magnani. Ravviandosi i capelli, mi salutò dicendo: ‘Ciao, nì!’. Poi si perse nel sole: sembrava un film di Hollywood”. Quel fotogramma del 1962, svelato dallo stesso Zero, è stato l’emblematico battesimo “popolare” di una parabola artistica tanto eccessiva quanto essenziale» (Massimo Iondini). «“A 13 anni l’ospedale San Giacomo acquista il palazzo dove abitiamo e vengo catapultato in una borgata di periferia, alla Montagnola”. Lì ce n’erano tanti, di bambini. “Sì, ma fu un trauma. Mia nonna, mia mamma, i tre fratelli di mia mamma, scapoli, pensando di fare una cosa buona, continuavano a mettermi tutti ’sti vestiti coi pizzetti, le giacche all’inglese con i bottoncini, il fiocchetto sulla camicia. Può immaginare gli altri ragazzini… Prima che io mi vestissi strano, ero già strano perché la mia famiglia mi aveva messo questa cornice”. Però ha imparato presto a incorniciarsi da solo. “Il mondo dello spettacolo, l’ho amato da sempre. Nel ’54 in casa c’era già il televisore. Io – avrò avuto 5 anni – guardavo Giancarlo Cobelli che faceva il mimo, Raf Vallone nel Mulino del Po, Paolo Stoppa nel ruolo di Carlo Day, Mario Scaccia nella Pisana, Ernesto Calindri, Mario Valdemarin. Pensavo: ‘Voglio diventare come loro’”» (Ferrucci). «Dopo la terza media io scelsi la scuola di cinema di via Achille Papa: volevo fare l’operatore. Ho imparato tanto, c’erano insegnanti di altissimo livello. Però poi mi sono detto che la mia macchina da presa potevano essere benissimo i mei occhi. Ho girato questo film fino a stamattina, ed è un film che mi soddisfa molto». Negli stessi anni «“cominciai a ballare e cantare”. Frequentò corsi o accademie? “No. Sono autodidatta: nato e cresciuto nell’incoscienza musicale. Ancora oggi non saprei scrivere una partitura. Mio padre, poliziotto, sognava di fare il tenore. Io volevo dimostrargli che i sogni si possono avverare. In casa si ascoltava molta radio. I dischi, me li portava un amico che girava il mondo con la marina. L’esordio, comunque, è stato nel 1964 al Ciak con le cover degli Animals. […] All’inizio mi facevo chiamare Joseph”» (Vittorio Zincone). «Volevo uscire dalla Montagnola ed entrare nella Dolce vita. Dovevo farmi notare, e il travestimento mi veniva naturale». «Mi preparavo un fagottello con tutte le mie stravaganze, mi nascondevo in un portone di via Po dove mi cambiavo e poi andavo al Piper. Quando finiva tutto mi rimettevo nello stesso portoncino, tornavo in borghese e andavo a casa. Un giorno mio padre, che era un poliziotto – tutt’altro che severo, era un grande padre –, mi disse: “Senti, che hai dentro quel sacco?”. Io risposi agitato: “Niente, papà”. “Fammi vedere… Tu esci con queste cose, poi ti vesti e poi ti devi cambiare: non va bene. Da domani esci direttamente vestito così”. Quello era mio padre. Considera che in quel palazzo c’erano centotrentasei poliziotti, perché era un alloggio della polizia di Stato. Quando uscivo da quel portone, con la benedizione di mio padre a indossare la mia seconda pelle, questi da dietro le tapparelle quello che non potevano dire! Quella è la scuola della vita» (a Walter Veltroni). «Quando diventa Zero? “Nel 1967. Andavo spesso in radio per assistere alla trasmissione Bandiera gialla di Gianni Boncompagni e Renzo Arbore. Gianni mi produsse il primo 45 giri, Non basta, sai/ In mezzo ai guai. Da Renatino, come mi chiamavano tutti, divenni Renato Zero”» (Zincone). «Come reazione a chi lo denigrava sceglie […] un’offesa come nome d’arte (“Sei uno zero”, gli dicevano)» (Gianmarco Aimi). «Tra il 1967 e il 1973, data del suo primo album No, mamma no, che cosa fa? “Di tutto. Attore, performer, persino il ballerino di fila per Don Lurio, che mi aveva notato al Piper e al Ciak”. Il ballerino? “Certo, anche in Rai, con Rita Pavone. […] Ho ballato anche per Jimi Hendrix. […] Sempre in quel periodo ho fatto Hair al Sistina. C’erano anche Loredana Bertè e Teo Teocoli. E l’Orfeo 9 di Tito Schipa Jr. […] Cercavo di fare più esperienze possibili. Frequentavo anche Mario Schifano, il pittore, e amavo Fellini. Con lui feci anche qualche comparsata”» (Zincone). «“La Toscana: fu lì che ebbi il mio battesimo quando, agli esordi, andavo disperatamente alla ricerca di un applauso. A Roma, per uno come me, c’era lo scantinato o il club esclusivo, il privé troppo sofisticato per lo Zero di allora. Io invece fiorii nei locali della Versilia e nelle balerone emiliane”. […] E i locali della capitale? “I club gay erano una salvezza per me. Lì coatti e rompiballe non potevano entrare. Ma ci voleva anche un certo coraggio, a frequentarli. Non di rado arrivava la polizia e finivi al commissariato. E anche il più casto Piper non sfuggiva alla regola. […] Ci portavano al commissariato Campo Marzio. Proprio lì dove lavorava mio padre Domenico. Poveretto, ogni volta mi gridava: ‘Un’altra volta!’”» (Giuseppe Videtti). «Tuo padre acquistava i biglietti dei concerti. “Sempre, voleva dimostrarmi la sua gioia e l’orgoglio”. Gli hai mai raccontato come hai evitato il militare? “Fu lui ad accompagnarmi, ma non sapeva della biancheria”. Cioè? “Un filo interdentale dietro, e davanti un triangolino color fucsia”» (Ferrucci e Travaglio). «Ho raccontato di essere omosessuale per evitare il servizio di leva, ma ho mentito. Sono fatto di ben altra pasta» (nel 2006, intervistato nel corso della trasmissione Domenica in). Nel 1973 «il cantante si fa fotografare in lurex e lamé sul suo primo album No! Mamma, no!. E poi eccolo anche in Zerofobia. Dove, con quello storico Mi vendo, dichiara la libertà di avere più personalità da proporre. In quel disco c’è anche Il cielo. […] L’album Zerolandia è scrigno di quell’inno alla libertà sessuale che è Triangolo: Zero lo interpreta in scena in tuta giallo limone con applicati giganteschi triangoli verde bottiglia in paillette, uno dei quali in basso proprio a incorniciare la “pietra dello scandalo”. Giusto per non lasciare nulla al non detto. Ma è anche l’album di La favola mia. […] Tra la fine dei Settanta e gli albori degli Ottanta Zero tocca la climax del successo» (Gian Luca Bauzano). «Nel 1979 ha girato tutta Italia con il tour Zerolandia, spettacolo di oltre due ore montato sotto un vero tendone da circo, nel quale ha chiamato a raccolta tutti i suoi “sorcini”, deliziati poi col film Ciao Nì, una sorta di documentario sulla sua carriera fino a quel momento» (Luca Pollini). «Nello stesso anno arriva EroZero e il primo posto in classifica. Contiene Il carrozzone, […] che è da subito tra i brani più rappresentativi del suo repertorio» (Attilio Recupero). «Nel 1982 partecipa come ospite fisso a Fantastico 3. La sigla Viva la Rai un ossimoro: negli studi paludati di mamma Rai sbarca Zero da una Rolls con un plumage nero, effetto cresta punk su abito oro. […] Seguirà poi il lungo periodo di crisi creativa» (Bauzano). Intorno alla metà del decennio, infatti, «Zero scopre che la sua immagine non è più trasgressiva, che i sorcini non lo seguono più. […] Zero scompare dalle scene per due anni e si ripresenta alla fine del 1989 con Voyeur, album registrato a Londra che ottiene un discreto successo, grazie al quale – abbandonati definitivamente prediche e travestimenti – inizia una lenta rinascita» (Pollini). «Zero trova in parte un maggior senso della misura. […] Testimonianza ne è la prima partecipazione al Festival di Sanremo nel 1991 – asciugando e quindi rendendo più efficace l’approccio melodrammatico che gli è proprio – con Spalle al muro di Mariella Nava, annunciata come il saluto alle scene ma replicata nel 1993 con la invece sovraccarica Ave Maria. […] Nel 1994 L’imperfetto porta a rinnovati consensi di pubblico. […] Segue la partecipazione alla colonna sonora del film di Tim Burton Nightmare Before Christmas, mentre Sulle tracce dell’imperfetto (1995) celebra i 30 anni di carriera e contiene I migliori anni della nostra vita, uno dei pochi brani del periodo a ottenere lo status di classico» (Recupero). «Dopo l’enorme successo ottenuto nel 1998 con l’album Amore dopo amore, per Renato tornano a spalancarsi le porte della tv. Nel 2000, lo spettacolo campione d’ascolti su Rai 1 è Tutti gli zeri del mondo, un viaggio nella memoria – a bordo della “Zeronave” – attraverso la sua arte, la sua musica e il suo essere teatrante. L’anno successivo vende mezzo milione di copie, in meno di due mesi, con La curva dell’angelo e comincia la fortunatissima serie di live negli stadi italiani» (Cecilia Ermini). Sempre alquanto prolifico, più recentemente Zero ha pubblicato Alt (2016), Zerovskij (2017), Zero il folle (2019) e, da ultimo, ZeroSettanta (2020), trentanove brani inediti articolati in tre album usciti a un mese di distanza l’uno dall’altro, a partire dal 30 settembre 2020, giorno del suo settantesimo compleanno. «In questi tre album si trova Renato Zero in tutte le sue sfaccettature: dal rock alle ballad, passando per le canzoni di protesta e quelle romantiche. Soprattutto le canzoni d’amore». «Questo disco non rappresenta la mia giovinezza, ma sicuramente una rinascita». «Non amo festeggiare i compleanni, lo avrò fatto tre o quattro volte in vita mia, ma questo dei 70 anni non me lo voglio perdere: voglio vedere le rughe dei miei colleghi sul palco, i reumatismi e le anche le defezioni della nostra età. Si farà più avanti, ma voglio con me tutto il mio pubblico, che si merita un grande show» (a Gabriele Antonucci) • «L’incontro che non può dimenticare? “Con Lucio Dalla. Me lo trovai davanti nell’ascensore della Rca: mi sarei messo a piangere. Pensai: ‘Ecco, non sono più solo’. Fu come guardarsi in uno specchio, ed era uno specchio pulito”» (Gobbi) • Molto riservato riguardo alla propria vita privata, a cominciare dal suo orientamento sessuale (nel 2009 dichiarò a Vittorio Zincone di non aver «ancora trovato casa»). Uniche presunte relazioni sentimentali note quelle con Enrica Bonaccorti e Lucy Morante, entrambe risalenti alla giovinezza. «A chi ha dato il primo bacio serio? “A una ragazzina che si chiamava Rita. Avevo 17 anni”. E il primo rapporto sessuale? “Con me stesso”. […] Ha amato più le donne o più gli uomini? “Ho amato le persone”» (Gobbi). «Credo che sia una scelta individuale il mettere a conoscenza gli altri delle proprie tendenze o gusti, non solo sessuali, oppure no. Anche la riservatezza fa parte della libertà» • Un figlio adottivo. «Andò così. Ero al cinema, e noto questo ragazzino. Era pettinato come Bart Simpson. E mi regalò un pupazzetto di Bart Simpson. Mi raccontò la sua storia: il padre era morto, la madre malata. Sono sempre stato vicino ai ragazzi degli orfanotrofi. Cominciai a seguire Roberto. Quando fu possibile, lo adottai. […] Roberto si è sposato con Manuela e hanno due bambine. […] A poco a poco sono riuscito a ricreare una famiglia numerosa, come quella in cui sono cresciuto» (ad Aldo Cazzullo) • Cattolico. «Apprezzo a tal punto papa Francesco che ho chiesto ad alti prelati la possibilità di incontrarlo per stringergli la mano. […] Non ci sono ancora riuscito» • Antiabortista. «I figli sono di tutti. Di chi li concepisce e di chi ne conosce l’esistenza. Rifiutarli è un insulto alla vita, una violenza verso noi stessi. E se l’avessero fatto a noi?». «Io sono contro l’aborto anticoncezionale. Ma non voglio la catena di montaggio: conta l’amore e il rapporto tra due esseri umani, e la buona tutela dei figli» (a Luca Dondoni) • Apolitico. «Per me la musica ha un suo vangelo e la politica ne ha un altro. La mescolanza non è possibile». «Io non andavo neanche alle Feste dell’Unità o dell’amicizia per tutelare la mia libertà di artista». «È più utile ritrovare la propria anima che andare in piazza a sventolare una bandiera» • Romanista • «La canzone preferita? “L’Ave Maria di Gounod. Dà serenità”. Il film? “Almeno due: Hollywood Party con Peter Sellers e La classe dirigente con Peter O’Toole che pensa di essere Cristo”. Il libro? “Adoro le testimonianze epistolari di Oscar Wilde e di Pasolini”» (Zincone) • «La critica mi ha accarezzato con grande superficialità, e non credo di essere mai stato compreso per quel che sono stato» (a Malcom Pagani) • «Strano trasformista anarco-reazionario che ha saputo accendere l’immaginario popolare e portare intere famiglie sotto i tendoni circensi della gioventù» (Marinella Venegoni). «La diversità di Zero, al contrario di quella di Bowie o di Pasolini, non ha mai spaventato nessuno. […] Chi aveva mai visto prima un predicatore en travesti? Una drag queen-sora Lella? […] Predicatore dunque, ma non bacchettone. Un nemico giurato dell’ipocrisia e dei potenti, pronto a battersi contro la droga, il consumismo, che però ha assimilato tutta la furbizia, l’opportunismo, l’umanità svaccata della cultura catto-romanesca. Ed è per questo che piace al suo pubblico. Parla la stessa lingua. Per la stessa ragione invece non è mai piaciuto troppo alla sinistra» (Alberto Dentice). «Un artista, un purissimo e raro artista. […] La sua vera dimensione non è […] la musica registrata, bensì il teatro, quel teatro fatto di canzoni, costumi e magia del palcoscenico che da secoli costituisce l’antitesi e la cura al prosaico quotidiano» (Camillo Langone) • «Io non sono di quelli che cantano a un pubblico indistinto: io ho bisogno di guardarli negli occhi. Di riconoscere la famiglia Cerquetti e la famiglia Di Luca. […] Trascorro la maggior parte del mio tempo in strada. Non sto in casa a contare i dischi d’oro: devo respirare, parlare coi romani veraci, gustare la coda alla vaccinara» • «Devo molto ai miei detrattori, a quelli che mi deridevano. Anche discografici. Quando mi presentai alla Rca volevano a tutti i costi trasformarmi in una sorta di nuovo Gianni Morandi. “Dobbiamo ripulirti l’immagine”, dicevano. […] La musica e i sorcini mi hanno salvato la vita. Non ho mai avuto un piano B. Giuro» • Suo antico progetto, finora irrealizzato, quello di Fonòpoli, sorta di cittadella della musica, in cui allevare, forgiare e promuovere nuovi talenti. «A un certo punto qualcuno ha pensato di poter fare un’enorme speculazione. E io non me la sono sentita, di andare avanti» (ad Andrea Scarpa) • «Un tempo i suoi fan, noti come “sorcini”, la veneravano e la seguivano passo passo per 24 ore al giorno. […] “Per uscire di casa mi nascondevo nel furgone della lavanderia in mezzo ai panni sporchi e puzzolenti. Ero agli arresti domiciliari”» (Gianni Poglio) • «Io sfuggo l’istantanea usa e getta. Preferisco, a chi vuole farmi un selfie, dare un abbraccio od offrire un caffè. […] Quello dei selfie è il cimitero della memoria. Quando si mettono questi scatti lì dentro, è come se si seppellisse l’esistenza» • «Renato ha bisogno di Zero e viceversa. Lo ammetto, non è sempre stato così, un tempo volevo tenere staccate le due personalità, ma ho fatto pace con me stesso, ammettendo che l’una non può vivere senza l’altra» • «Il make up e gli strass non hanno nascosto il vero Renato. Anzi, l’hanno esaltato e fatto venire fuori in tutta la sua genuinità. […] A me i boa di piume e i lustrini hanno salvato la vita» • «La ricompensa per questa scelta di vita è stata quella di aver accarezzato il volto di Lucio Dalla, aver stretto la mano a Lucio Battisti, aver provato amore per Mimì [Mia Martini (1947-1995), sua antica compagna d’avventure con la sorella Loredana Bertè – ndr], un amore intramontabile e vero; o di aver raccontato barzellette con Rino Gaetano» • «La pensione non fa per me». «Non riesco a immaginarmi senza pianoforte, senza scrivere qualcosa» • «Non è la morte che mi spaventa, piuttosto il fatto di non essere più all’altezza, di essere sostituito da un altro nel cuore dei fan». «Io sono già morto svariate volte, in forma evidentemente lieve. Questo mi ha fatto capire che il desiderio più grande che posso avere è che la morte mi colga vivo». «Come immagina il suo funerale? “Una giornata di sole dove tutto è perfettamente in ordine”. Che musica vorrebbe suonassero in chiesa? “L’Ave Maria di Schubert”. […] Che cosa le direbbe San Pietro? “Sicuramente che non ho le chiavi per aprire quella porta. Ma io porterò una chiave di violino, e riuscirò a entrare lo stesso”» (Gobbi).