Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2021  ottobre 27 Mercoledì calendario

L’algoritmo fa a pezzi le nostre vite

«Peppe ma dove vai, ma ti fanno lavorare sai?», così finisce "I soliti ignoti", il capolavoro della commedia all’italiana di Mario Monicelli. Era l’Italia del boom economico, fine anni Cinquanta, e il lavoro poteva ancora essere rifiutato. «Ce l’ho fatta, sono cinque euro all’ora. Glieli do io, per lavorare», così il protagonista di "E noi come stronzi rimanemmo a guardare", il nuovo film di Pierfrancesco Diliberto in questi giorni nelle sale. È l’Italia di oggi, dove il lavoro è un privilegio per cui si è disposti a tutto, anche a pagare pur di farlo. A questo siamo arrivati, dopo trent’anni di retorica sul doversi liberare dal peso dello Stato e dai vincoli della burocrazia, sul diventare imprenditori di noi stessi. E così non ci siamo liberati dal lavoro, anzi, ci siamo volontariamente iscritti a una sorta di violento Squid Game in cui l’estrazione di plusvalore è il premio, e non la condanna. Nel film di Pif, tratto da Candido e la tecnologia dei Diavoli e ambientato in un futuro così prossimo che è il nostro presente tra dieci minuti, Fabio De Luigi è un uomo che alla soglia dei cinquant’anni ha perso il lavoro, e come unica possibilità di sopravvivenza si ritrova a fare il rider. Precipita in un mondo atroce, regolato da competizione e sfruttamento, ma le responsabilità sono sue: nella vita precedente sviluppava algoritmi per ottimizzare la produzione e tagliare i costi, ovvero licenziare i lavoratori, e delle idee cui ha aderito, rilanciate da quella sinistra sfracellatasi a livello globale nel sogno della terza via di Clinton e Blair, poi rivelatosi un incubo.
È un gioco al massacro. Il rider più forte pedala più veloce, ottiene più consegne, guadagna di più, aumenta il punteggio, è premiato dall’algoritmo, rifiuta quindi ogni garanzia o contratto collettivo che possa tutelare i più deboli, chi arranca, chi non ce la fa. Chi si ferma è perduto. Ecco come Squid Game, la fortunata serie pop coreana diventata fenomeno di culto globale, non è più semplice metafora della guerra tra poveri ma la rappresentazione in colori pastello della realtà in cui viviamo. Non è un caso che il rosa, l’azzurro, il verde e il giallo che dominano quell’immaginario siano poi gli stessi colori degli zaini e delle divise che vediamo addosso ai rider che sfrecciano per le nostre città, pronti a consegnare una bottiglietta d’acqua, una pianta tropicale, una tazza tibetana per la meditazione: merci di cui non possiamo fare a meno, abbiamo un disperato bisogno di averle a casa in poche ore.
Questa la messa a terra della terza via. Nel capitalismo delle piattaforme i diritti sono macigni che ci impediscono di spiccare il volo, le tutele catene che ci ostacolano nella corsa verso la libertà, in un delirio di ottimismo in cui volere è potere e le risorse del pianeta sono infinite. Senza fermarsi nemmeno un momento a pensare al cambiamento climatico, all’impatto dei Paesi emergenti nella globalizzazione, al fatto che l’algoritmo sarà pure efficiente ma è una carogna: estrae valore dalle nostre vite e non si preoccupa del nostro benessere. E così ci siamo iscritti a Squid Game. Quando abbiamo deciso che l’io non era più un "soggetto" ma un "progetto" siamo diventati piccole aziende, come ha scritto Byung-Chul Han, e la solidarietà è stata sostituita dalla concorrenza, l’empatia dal fatturato. Eppure proprio dai rider, schiavi dell’algoritmo, viene la più grande lezione. Come raccontano loro stessi sono stati prima i più giovani a organizzarsi, a capire che da soli non ce l’avrebbero mai fatta e insieme forse sì. Poi sono arrivati gli altri, quelli che lo stato minimo lo conoscevano. Quelli come noi, che "Come stronzi rimanemmo a guardare" mentre accadeva tutto questo. E quando si sono resi conto che l’unico montepremi in palio della guerra tra gli umani era lo sterminio, si sono uniti ai più giovani. Si sono sindacalizzati, hanno scioperato, lottato, sono caduti e si sono rialzati. Hanno vinto. La storica sentenza della Procura del Tribunale di Milano guidata da Francesco Greco, le aziende (non tutte) che cambiano i contratti e inseriscono garanzie, assistenze e tutele, quelle di cui pensavamo di poter fare a meno, quelle che consideravamo limiti e non conquiste. Il mutamento del corso politico cui stiamo assistendo, dalla Cina agli Stati Uniti, il ritorno della politica contro lo strapotere delle piattaforme, si inserisce in questa rinnovata dialettica. Una volta si sarebbe detto che la storia non è altro che la storia dei conflitti di classe. I rider hanno utilizzato la terza regola dello Squid Game, quella che recita che se la maggioranza è d’accordo si può interrompere il gioco. Una cosa resta chiara, infatti, ieri come oggi: da soli non si va da nessuna parte, uniti si vince. Siamo rimasti a guardare per troppo tempo, è ora di riprenderci in mano le nostre vite.