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 2021  ottobre 27 Mercoledì calendario

Intervista a Billie Jean King

Ha giocato, magnificamente, ma soprattutto ha cambiato il gioco.
Delle donne e del mondo. Con una racchetta ha capovolto leggi, mentalità, gerarchie. E ha vinto la partita. Dentro e fuori dal campo. Per capirci: 39 Slam (fra singolare, doppio e misto), compresi i 20 a Wimbledon.
Ora lo racconta in un’autobiografia, Tutto in gioco (La Nave di Teseo) e a voce con l’entusiasmo di chi non ha smesso di riparare il mondo. Billie Jean King, americana, il 22 novembre compirà 78 anni.
Lei inizia con una citazione del giudice Ruth Bader Ginsburg.
«Sì, era una donna che stimavo molto. La frase è: combatti per quello a cui tieni, ma fallo in un modo che spinga gli altri a unirsi a te. Ribellarsi è giusto, ma è meglio farlo in squadra. Io ho sempre amato giocare con e per le altre. Quando nel ’70 con otto altre tenniste, il gruppo delle Original 9, abbiamo iniziato il circuito femminile, per un dollaro di paga, siamo state coraggiose. C’era il rischio di fallire, di essere cancellate, di perdere tutto. Andavamo contro un sistema, voluto e mantenuto dagli uomini. Senza aperture. Dove una moglie per avere un libretto degli assegni doveva avere la garanzia del marito. Vincerai perché sei brutta, mi disse Frank Brennan, che pure era amico mio e credeva in me. Togliti, non puoi fare la foto del torneo con gli altri perché hai i pantaloncini e non la gonna, mi rimproverò il direttore del circolo tennis di Los Angeles. Nessuna di loro ha la barba, scrisse di noi Jim Murray, che era un premio Pulitzer. Jack Kramer ebbe la faccia tosta di sostenere che quando giocavano le donne, gli spettatori andavano in bagno. Karen Hantze Susman veniva sminuita con la citazione ‘la casalinga ventenne che vince Wimbledon’. Questi erano i commenti dell’epoca. L’associazione dei tennisti professionisti, da Ashe a Stolle, non ci voleva, eppure erano miei compagni. Ma non c’era niente da fare: gli uomini ci sbarravano la strada. Potevano, gli era permesso».
Da 1 dollaro al premio di 3 milioni a Naomi Osaka agli Open Usa 2020.
«Lo stesso che ha preso Dominic Thiem tra gli uomini. Il merito è di noi pioniere. Oggi le nuove generazioni non sanno niente della storia prima di loro. Delle fatiche e delle conquiste. Non si interessano. Si lamentano perché vogliono più soldi, ma sono ignoranti. Nessuno che le istruisca. Anzi i manager e chi si occupa di loro vogliono che restino così: cara, pensa al gioco, non preoccuparti di altro. Eh no, io voglio sapere cosa c’è sotto e dietro all’organizzazione del gioco. Voglio poter contare, parlare con chi decide, conoscere le logiche commerciali.
Avrei voluto studiare legge, anche se a tennis mi sono laureata piuttosto bene. Io dal 2018 faccio parte del gruppo dei proprietari dei Los Angeles Dodgers. Non ho mai avuto paura di affrontare gli uomini sul loro terreno. A queste ragazze dico: imparate a fare trattative, sappiate che la parola compromesso a volte può essere meno peggio di quello che sembra, alzate la testa, interessatevi a quello che capita attorno a voi: dall’emergenza climatica alle ingiustizie alle discriminazioni. Non è mai troppo vero che quelle cose non c’entrano con il gioco».
Cosa c’è che ancora non va?
«Quando chiedo ai giovani perché giochi a tennis? La risposta è: non so. Io lo sapevo: mi piaceva colpire la palla, mi piace ancora, amavo quel rumore. A 10 anni ho scoperto cosa fare nella vita e ho deciso che sarei stata la numero uno. La prima volta che ho messo piede sull’erba di Wimbledon ho chiesto: possiamo restare qui per sempre?».
Lei scrive anche dell’Italia.
«Vi adoro, nonostante tutto. Nel 1970 agli Internazionali di tennis in Italia il vincitore prendeva 7.500 dollari, la donna 600. La disparità era 12 a 1.
Vinsi e protestai, la risposta fu: se non vi piace, non tornate. La mia ultima volta fu a Perugia nell’82. Non sono mai stata così incoraggiata dal pubblico, come da voi. Dai, dai, mi urlavano. Ecco il chiasso, i cuscini che volavano in campo, gli schiamazzi, tutti che mi volevano toccare. Io non sono per il silenzio, mi piace sentire gli umori, il calore. Non vengo dai club aristocratici, ma dai parchi pubblici. Mio padre era pompiere, mia madre casalinga.
Lavoravo per mantenermi, anche se già avevo vinto Wimbledon. Noi siamo performer, il nostro spettacolo è per il pubblico. Sono onesta, lo ammetto, mi piace il tifo dei fans, pure sguaiato. E guardate com’è in alto ora il tennis italiano, Fognini, Berrettini, Sinner. Avete una generazione piena di futuro. A New York nel 2015 ho parlato con il vostro premier Matteo Renzi dopo la finale Pennetta-Vinci. Mi disse: non ha idea di quello che significa per noi e per lo sport che due ragazze del sud siano arrivate fino a qui a giocarsi il mondo. Ho ammirato anche il volto dolente e umile di Francesca Schiavone quando si è presa gli Open di Francia.
Senza dimenticare Lea Pericoli. Sui soldi siete stati taccagni, sull’affetto molto generosi».
La battaglia sull’equità salariale oggi?
«Resta importante. I soldi danno scelta, opportunità, indipendenza.
Qualità e organizzazione. Althea Gibson, la prima afroamericana a vincere un titolo del Grande Slam diceva: i trofei non si possono mangiare. Quando avevo 10 anni mia madre mi mostrò il bilancio familiare e mi fece capire che tutto ha un costo. Novak Djokovic è a capo della Professional Tennis Players Association dove si parla solo di esigenze maschili e poco delle donne. Ci risiamo, verrebbe da dire. Quando nel ’76 divenni la prima a vincere 100 mila dollari di premi l’anno, il presidente Richard Nixon mi chiamò per congratularsi, vuol dire che significava qualcosa. Cinque anni dopo Chris Evert superò il milione di dollari. Tante impiegate dichiararono che il mio successo su Bobby Riggs nella “Battaglia dei Sessi” nel ’73 le aveva incoraggiate a chiedere un aumento. Anche Obama mi ha confessato di aver visto quell’incontro e di averlo citato alle figlie. I soldi non sono una vergogna, né una debolezza, ma spesso un valore. Quindi sì, equal pay for equal work ».
L’ eredità più importante che lascia: è sul campo o fuori?
«Fuori. È sociale. E quello che ho fatto fuori ha ostacolato la mia carriera. Ne parlavamo con Muhammad Ali, un amico. Avrei vinto di più se mi fossi limitata a giocare, ma forse non avrei migliorato un po’ il mondo. Ho lottato per far approvare ‘Title IX’, in modo che anche le donne potessero avere accesso alle borse di studio sportive.
Nel 1973 nelle università 50 mila uomini ne avevano diritto, ma solo 50 ragazze. Ho aperto lo sport ai transgender, giocando con Renée Richards, che tra l’altro era ed è la mia oculista. Ora è difficile pronunciarsi su testosterone e identità sessuale, caso Semenya e altre, e spero che gli studi scientifici sappiano aggiornarsi, ma io sono per aprire le porte, per integrare tutti. Ho organizzato manifestazioni sportive per fare in modo che il tennis sia più democratico. Ho fatto la corista per Elton John che per me ha scritto la canzone Philadelphia freedom .
Charles Schulz, creatore dei Peanuts, mi ha citato più volte nelle vignette, accettando il ruolo di amministratore fiduciario della Women’s Sports Foundation. Ho fatto di tutto: allenatrice, commentatrice, ho fondato un giornale, nella mia città a Long Beach mi hanno dedicato la biblioteca».
Il momento più difficile?
«Quando nell’estate del ’78, ricattata dalla mia ex, ho dovuto ammettere pubblicamente che amavo le donne. Persi subiti mezzo milione di dollari, gli sponsor mi lasciarono, anche quelli dell’abbigliamento sportivo, l’amministratore di un’azienda in una lettera mi chiamò puttana. È stata dura, ma la parte più difficile è stata fronteggiare la mia famiglia. Ce l’ho fatta con l’aiuto della mia psicanalista che mi ha fatto notare che dovevo smettere di far contenti gli altri. A 50 anni cercavo ancora di non contrariare i miei genitori, desideravo essere la brava ragazza, ma quella cosa mi stava rendendo la vita insopportabile. A 51 ho dovuto fronteggiare l’idea che il mio problema di peso, viaggiavo sui cento chili, era dovuto a disturbi alimentari che mi portavo dietro da ragazza e quindi mi sono ricoverata in una clinica. Ai giovani dico: chiedete aiuto, parlate dei problemi, non vergognatevi. Giocherete meglio quando vi sarete liberati».
Djokovic forse non andrà in Australia se sarà obbligatorio vaccinarsi.
«Io ho fatto anche la terza dose.
Pazienza, si farà il torneo senza Djokovic. Bisogna capire che la libertà non è libera. Impone responsabilità e consapevolezza. In questo caso verso la salute pubblica. Quando sei un personaggio famoso hai un dovere in più. Può non piacerti, ma è così. Freedom is not free ».
Com’è stato raccontarsi?
«Ci ho messo quattro anni. Ho dovuto tagliare, 800 pagine erano troppe.
Non puoi metterci tutti i tuoi amici, mi ha detto l’editore. Sia chiaro, la mia vita continua, non intendo fermarmi. Sono stata fortunata, se nel ’54 in quinta elementare la mia amica Susan Williams non mi avesse chiesto: ti va di giocare a tennis?, non sarei qui. Alle donne dico: non piangete, organizzatevi. Bisogna ascoltare, coltivare alleati, e poi sferrare il colpo. La partita è ancora lunga, ma io la giocherò sempre».