Domani esce “Freaks out” (Rai cinema — 01 distribution) di Gabriele Mainetti, lei è uno dei fenomeni da circo nella Roma occupata del 1945. Dal provino sono passati quattro anni.
«Era il 2017, giravo La profezia dell’Armadillo, una vita fa. Il ragazzo che comunica con gli insetti era molto più giovane di me ma con Gabriele c’era stata sintonia; mesi dopo mi ha richiamato, lo aveva reso più adulto. Cencio t’appassiona: è emarginato, megalomane ma con uno sguardo puro. La messinscena evocativa di Gabriele ti aiuta a creare un personaggio che resta impresso, anche esteticamente».
Con i capelli bianchi.
«Con la parrucca mi piacevo, ma quando la toglievo restavo con l’attaccatura rasata, la nuca tinta di biondo, le sopracciglia scolorite, mamma diceva “sembri un sopravvissuto a un incendio”».
Se lo ricorda il suo primo set?
« Libero Burro, avevo 6 anni. Il set è un ring in cui puoi fare cose altrimenti impossibili. Mi divertivo perché potevo andare a letto tardi, ordinare Coca-Cola a volontà, giocare con le bancarelle e il tiro a segno. Pensavo che sul set facesse tutto mio padre, il regista allora mi sembrava un mestiere impossibile».
Ha girato “Non ti muovere”, “La bellezza del somaro”...
«Non ero formato come attore, a vent’anni non sapevo ancora contenere il mio temperamento comico che in fondo costituisce la mia prerogativa. Mi ero reso conto che andavo incontro a una serie di pregiudizi e giudizi sprezzanti che non mi facevano stare bene. Ho mollato. Ero iscritto a filosofia, volevo insegnare. Poi ho iniziato a scrivere e a 24 anni, ritrovando i set, ho capito che ero migliorato. Ho imparato a fare l’attore non facendolo. I cinque anni di libri letti, sofferenze, dialoghi interiori hanno migliorato la mia consapevolezza. Mi piace quando i ragazzi che incontro mi dicono che sono riuscito a fare qualcosa senza tradire la mia gioventù».
“I predatori” e “Gli Iperborei” raccontano il bisogno di rottura di una generazione.
«Sì, nel senso che i personaggi giovani percepiscono una grossa distanza tra le loro speranze e sogni e la possibilità di realizzarli. Riguarda molto quest’epoca. Che tu voglia fare il regista a 26 anni o aprire una catena di ristoranti. È come se il mondo non fosse più modificabile. Ma non è colpa dei genitori: anni fa il mondo, per quanto meno interconnesso, proliferava meglio. Si poteva vivere col teatro, c’erano le code per il cinema, esisteva la borghesia...».
Suo padre Sergio dice che non farà più il regista, conta su di lei.
«Chissà se è vero. Io farò il regista finché potrò esprimermi in libertà».
Tarantino dice che a lui la
recitazione non bastava.
«Lui è ossessionato dal cinema, io dalla vita. L’esistenza è anche faticosa e insostenibile, ma è impossibile non perdersi nel mistero più grande. Il cinema è uno dei modi più incisivi e affascinanti per farlo».
Il ruolo di Cencio era dieci chili fa, poi c’è stato Totti.
«Ho vissuto di riflesso, abusivo, l’amore assoluto che la gente ha nei suoi confronti, è stato incredibile».
È vero che è ipocondriaco?
«In realtà sono coraggioso, rispetto a certi miei coetanei. Ogni tanto mi convinco di avere delle malattie.
Forse per stress e stanchezza, ma ho avuto pruriti, cefalee a grappolo...».
Castellitto s’interrompe, una passante gli urla dalla strada.
Che le ha detto?
«Capitano, sei un grande attore e scrittore. Ma tuo padre è più bravo».
E lei che ha risposto?
«Per ora».