la Repubblica, 27 ottobre 2021
La macchia nera su Gallimard
«Sono morto dieci anni fa», disse Jacques Schiffrin nel 1950, poco prima di morire realmente, all’età di cinquantotto anni. Infatti, nel ’40, il 10 novembre, in piena guerra, dopo la capitolazione francese e l’accettazione delle leggi razziali, Jacques Schiffrin, ebreo d’origine russa, fondatore della prestigiosa collana Bibliothèque de la Pléiade, che pubblicava le opere complete dei grandi autori classici e talvolta contemporanei, aveva ricevuto una lettera dal suo padrone Gaston Gallimard che gli toglieva la direzione della collana. Jacques Schiffrin che aveva creato da solo questa “biblioteca” prima dedicata agli autori russi, poi allargata alle varie letterature del mondo, aveva venduto nel ’33 l’idea e il nome alla casa editrice francese, rimanendo responsabile delle scelte e direttore. Abbandonato dal suo capo, malgrado le proteste di (rari, in verità) scrittori influenti, Schiffrin fu costretto a esiliarsi negli Stati Uniti, con l’aiuto di André Gide, che chiese al responsabile americano dei viaggi dei rifugiati (non solo ebrei) di accogliere favorevolmente la richiesta dei visti per la famiglia Schiffrin. Jacques partiva con la moglie Simone e il figlio, ancora piccolo, André (che sarebbe diventato in America uno dei più famosi editori). Questa macchia incancellabile della storia dell’editoria francese non fu un fenomeno unico. La maggior parte delle case editrici accettò di obbedire alle leggi e di sottomettersi alle scelte della lista di Otto Abetz che “puliva” i cataloghi da ogni presenza ebrea, sia nell’elenco dei libri che nell’elenco degli impiegati.
Amos Reichman racconta la vita di Jacques Schiffrin in un libro che uscì nel 2019 (da Columbia University Press) in lingua inglese e che adesso è pubblicato per la prima volta in francese, la sua lingua originale: Jacques Schiffrin, un éditeur en exil (Seuil, collana La librairie du XXIe siècle, pagg. 280, euro 22). La vicenda era già abbastanza ben conosciuta in Francia, dove il figlio di Jacques Schiffrin l’aveva ricordata in vari saggi e memorie, e fa parte dei numerosi “errori” commessi dalle case editrici. Anche se nel suo libro Amos Reichman precisa che Gallimard ebbe l’onestà di pubblicare nel 2005 il carteggio André Gide-Jacques Schiffrin, e quindi non volle cancellare questo oscuro passato, quell’episodio rimane qualcosa di molto imbarazzante che segna definitivamente la storia editoriale.
Il caso vuole che esca contemporaneamente in questa stessa collana – che esiste ancora sempre da Gallimard – un’antologia di racconti dei “salvati” dei lager nazisti: L’Espèce humaine et autres écrits des camps (a cura di Henri Scepi, Dominique Moncond’huy e Michéle Rosellini). Si tratta delle principali testimonianze e analisi di riferimento, di David Rousset, Robert Antelme (del quale si è ripreso il titolo generico), Jorge Semprun, Charlotte Delbo, Elie Wiesel, Piotr Rawicz, Jean Cayrol, François Le Lionnais. Tutti quanti autori considerati classici del Novecento, come sono in Italia e nel mondo Primo Levi e Edith Bruck.
Durante la sua vita, e fino alla morte, Primo Levi stentò a farsi riconoscere pienamente in quanto scrittore. Infatti, non era solo un testimone, ma aveva dimostrato, nei suoi racconti fantastici, nel suo modo molto originale di raccontare la propria vita e di approfondire le sue analisi sullo sterminio della Shoah (tra l’altro, nel Sistema periodico ), nella sottigliezza della sua argomentazione (ne I sommersi e i salvati ) sprovvista di ogni odio, che c’erano nei suoi libri tutte le sfumature della vera letteratura, che rifiutava di essere trasformata in tribunale, con le semplificazioni di ogni accusa, di ogni processo. La letteratura gli regalava una tavolozza di colori, di sentimenti, di percezioni necessarie alla verità della memoria e alla comprensione dell’uomo.
Dal canto suo, Edith Bruck, scegliendo una lingua che non era la sua, per potersi sentire più libera da ogni rancore nei confronti del proprio paese natio, ha seguito lo stesso esempio letterario di raffinatezza e di nobiltà.
Nell’antologia della Pléiade, i libri scelti sono sicuramente fondamentali, ma l’aspetto “collettivo” del libro, con tanti autori diversi, indebolisce l’originalità letteraria di ognuno. Quasi come se le varie voci s’equivalessero e fossero intercambiabili. Certo, le presentazioni e le note correggono questa impressione sbagliata. Ma c’è qualcosa di spiacevole in un libro senza il nome dell’autore sulla copertina. Basta ripetere che il fatto di essere stati deportati, di aver attraversato l’esperienza atroce dei lager e di essere sopravvissuti non toglie alle testimonianze il loro carattere letterario. Non è una voce collettiva che parla, ma sono voci diverse che si esprimono, con sensibilità diverse, anche con analisi diverse e con scopi diversi. A cominciare dalla questione del perdono: ognuno ha nei confronti del perdono una posizione diversa. Edith Bruck, per esempio, quando è interrogata sulla sua concezione del perdono, rifiuta di rispondere in modo sbrigativo. Certo, per conto suo, perdonerebbe volentieri, perché lei ignora l’odio. Ma rifiuta di perdonare nel nome degli altri. E ha ragione. A proposito dei nazisti, un perdono impegna una comunità intera. E nessuno, qualsiasi sia la sua esperienza, ha il diritto di parlare a nome di questa comunità su un tema così grave.
Bisogna comunque leggere attentamente ogni libro incluso nel volume e seguirne i ragionamenti e i fatti descritti talvolta con freddezza oggettiva e precisa, talvolta con un coinvolgimento lirico e una soggettività impressionistica, ma mai con distacco e indifferenza. In ognuno di loro, c’è la ricerca della verità e l’invenzione di un linguaggio nuovo per raggiungere il livello dell’orrore dicibile. Non a caso, Primo Levi citava Dante. Non a caso, Celan riservava al linguaggio poetico la memoria dei lager.
Certo, per tornare a Jacques Schiffrin, si potrebbe dire che essendo stato licenziato nel ’40 e avendo attraversato l’oceano nel ’41, avendo quindi trovato un rifugio e una vita nuova in America, Schiffrin aveva avuto, con la propria famiglia, la fortuna di sfuggire alla deportazione e ai campi di concentramento. A New York, poté ricostituire una casa editrice prima indipendente, poi collegata ad altre, ma gli fu rifiutato da Gallimard, durante la guerra e anche dopo, negli ultimi cinque anni che gli rimanevano da vivere, l’uso del nome “Pléiade” e anche la ripresa di titoli o autori.
E il paradosso fu che Gallimard, dopo la guerra, per l’imbarazzo causato dalla cattiva reputazione della rivista N.R.F., macchiata dalla collaborazione con i tedeschi durante l’occupazione, sostituì il nome della rivista con Les Cahiers de la Pléiade. Brutto scherzo della storia, e della vigliaccheria editoriale… Quando i fratelli Gallimard (Gaston e Raymond) insistettero perché Schiffrin tornasse a dirigere la collana dopo la guerra, lui rifiutò e comunque morì senza approfittare dell’offerta di compenso che proponeva la casa editrice. Quando fu invitato a tornare a Parigi da New York, preferì mandarci prima suo figlio quattordicenne, André, che, dopo il viaggio, non lo spinse ad accettare la proposta. Alcune delle pagine più preziose e ambigue di questa dolorosa biografie riguardano l’atteggiamento di André Gide rispetto a Jacques Schiffrin. Certo, egli ebbe immediatamente una reazione molto generosa e nobile, aiutandolo, ricevendolo nella sua casa del sud, che era in zona libera, poi facilitando il procedimento burocratico per la partenza e la traversata dell’Atlantico. Ma le sue lettere e anche i suoi diari contengono delle esitazioni – non nell’amicizia e nell’ammirazione intellettuale e umana – ma nella valutazione del pericolo e della minaccia nazista, e qualche annotazione dispregiativa sugli ebrei, quasi che Jacques Schiffrin fosse un’eccezione notevole. E questo ci dà molto da riflettere – anche quando si tratta di un’intelligenza così ammirevole come quella di Gide – sulla lucidità degli intellettuali in periodo di crisi tragica.