la Repubblica, 27 ottobre 2021
La sottile linea russa
Tutto quello di cui Euclide parla non esiste. Ciò nonostante, la geometria così come Euclide l’ha immaginata, è l’unica che si accorda alla nostra esperienza quotidiana e aggiungo – si capirà spero perché – un altro aggettivo: terrena. La geometria euclidea garantisce, per dirne una, che i corpi solidi non cambino forma durante il movimento – al netto delle palle lanciate nei cartoni animati giapponesi da Jenny la tennista, Holly e Benji e Mimì e le ragazze della pallavolo.
Se la geometria che descrive il nostro mondo nasce da ipotesi di misteriosa esistenza («il punto è ciò che non ha parti»), c’è da chiedersi quale ulteriore rarefazione di realtà stia in un numero detto immaginario. Il nome lo inventa Cartesio, ma è Leibniz che in maniera formidabile (siamo a cavallo tra Seicento e Settecento) ne svela essenza e specie: «La natura, madre delle verità eterne, anzi lo spirito divino, è in realtà troppo gelosa della propria straordinaria varietà per consentire che le cose si addensino tutte in un unico genere, ha perciò trovato un sottile e mirabile espediente in quel prodigio dell’analisi, quel mostro del mondo delle idee, quella specie di anfibio tra essere e non essere, chiamata radice immaginaria». Pensiero che potrebbe essere posto, tra l’altro, a monito e conclusione di tutte le discussioni riguardo l’identità di genere.
Ma torno sui numeri immaginari e sulla loro natura perché la casa editrice Mimesis porta in libreria uno dei testi più visionari e oscuri di Pavel Florenskij, matematico, filosofo e prete russo vissuto tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento. Il libro si intitola Gli immaginari in geometria (a cura di Andrea Oppo e Massimiliano Spano, traduzione di Anna Maiorova, A. Oppo e M. Spano, pagg.112, 12 euro) ed è stato pubblicato nel 1922 nonostante Florenskij abbia cominciato a scriverlo venti anni prima mentre era studente alla facoltà di matematica. È un libro che lo accompagna per più di un terzo della vita.
I numeri immaginari o numeri complessi vengono introdotti (anche a scuola) come coppie di un piano cartesiano sulle cui ascisse il passo è scandito dall’unità reale, e sulle cui ordinate il passo è segnato da una unità immaginaria, il simbolo di quest’ultima è i.
Da qui prende l’abbrivo Florenskij per fornire una sua rappresentazione geometrica dei numeri immaginari. Immagina una superficie piana che su una faccia abbia i numeri reali e sull’altra i numeri complessi. Non numeri reali e immaginari sullo stesso piano, ma numeri reali e immaginari sopra e sotto lo stesso piano, opposti. La geometria che ne deriva è ctonia, in senso proprio, perché le aree delle figure geometriche nella parte immaginaria hanno valore negativo. Esattamente il motivo per cui per quasi duemila anni l’equazione x2+1= 0 equivalente a x2= -1 non ha avuto soluzione, inconcepibile che un’area avesse misura negativa. Ipotizza dunque Florenskji che esistano geometrie terrene governate da Euclide e geometrie immaginarie nelle quali è l’impensato a dominare. Questo impensato matematico, aggiunge in un capitolo successivo alla prima stesura, è stato però visto da Dante Alighieri. E la geometria è ctonia perché Florenskij si mette nell’inferno di Dante e da lì, deducendo dai versi la geometria tolemaico-dantesca della Commedia, ne evidenzia la natura ellittica concorde a quella della relatività einsteniana: «Il suo (di Dante) viaggio è stato reale; ma se anche qualcuno lo negasse, andrebbe comunque riconosciuto come una realtà poetica, cioè come qualcosa che può essere immaginato e concepito e, come tale, contiene i dati necessari per comprenderne i presupposti geometrici».
A Floreskji interessa mostrare che lo spazio e il tempo sono finiti e chiusi in sé stessi e che il limite della velocità della luce – limite posto nel modello di Einstein – dice solo che oltre quella velocità cambia il modo di vita e cambia la geometria, e questa nuova geometria giace sulla faccia del piano opposta ai numeri reali, tra i numeri immaginari.
Qualche anno dopo, siamo nel 1927, è Mandelstam – che con ogni probabilità aveva letto Florenskij – a ragionare su quanto Dante e il suo poema non stiano dietro ma davanti alla scienza moderna. Mandelstam voca a sé e alla Commedia le scienze della terra, geologia e cristallografia. La nuova edizione di Conversazione su Dante – fino al mese di maggio 2021 oscuro, oscurissimo testo in italiano e ora luminoso luminosissimo grazie alla cura di Serena Vitale – è stata pubblicata da Adelphi (pagg. 116, 13 euro). «La sua poesia – scrive Mandelstam – conosce tutte le forme di energia note alla scienza dei nostri tempi. L’unità di luce, suono e materia ne costituisce l’intima natura». E continua, qualche pagina dopo: «I versi di Dante rivelano, appunto, una formazione e una colorazione geologiche. La loro struttura materiale è di gran lunga più importante del loro decantato carattere scultoreo. (...) In altre parole, immaginate un monumento di granito eretto in onore del granito come per rivelarne l’essenza: avrete così un’idea abbastanza chiara del rapporto che Dante stabilisce tra forma e contenuto».
È di certo vero che Galileo Galiei, oltre a un grande scienziato, sia stato un grande scrittore, e, leggendo Florenskij e Mandelstam viene da pensare che accade pure che i grandi poeti siano capaci di immaginazioni non metamorfiche, di immaginazioni scientifiche che non prendano l’abbrivo dal reale – tutto quello di cui Euclide parla, non esiste – ma lo chiariscano, viene da pensare, insomma, che i grandi poeti siano grandi scienziati.