Corriere della Sera, 26 ottobre 2021
Francesca Michielin è una cantante diversa. Intervista
«Oggi si ragiona a singoli brani oppure ep o album molto brevi. È un atteggiamento post-modernista in cui tutto è a spot, elementi singoli ed evocativi». Francesca Michielin è una che la musica, oltre che a farla e ad ascoltarla, la analizza anche. È dedicato a lei l’Artista day di oggi, iniziativa di Corriere della Sera e Radio Italia che celebra i protagonisti della canzone italiana.
È uscito da pochi giorni «Nei tuoi occhi», brano dalla colonna sonora di «Marilyn ha gli occhi neri». È il via a un nuovo progetto dopo le collaborazioni di «Feat»?
«Non so ancora quale direzione prenderò, ma da ascoltatore mi manca un po’ di storytelling. Ci sta la canzone estiva spot, l’ho fatta anche io, ma ho bisogno di qualcosa in più. Jovanotti è maestro in questo, ha sempre una visione sua, a prescindere dalla lingua che si parla in quel momento. Ma anche Alessandra Amoroso ha appena pubblicato un disco con molte tracce in cui non si snatura. “Nei tuoi occhi” arriva dopo tante collaborazioni e all’inizio avevo paura a mettere le mani in pasta da sola, ma poi la canzone è nata di getto».
Gli occhi come porta dell’amore. È il suo senso più sviluppato?
«No, è l’udito. Ascolto molto la voce delle persone e il loro modo di ragionare e leggere le situazioni. Non roba da colpo di fulmine, ma a volte la voce è stata un plus per innamorarmi di qualcuno».
Il giorno che ricorda più chiaramente?
«Il primo di scuola alle elementari. Ero emozionata, ho iniziato a leggere e scrivere a 4 anni, ero curiosa e non vedevo l’ora: avevo cartella e astuccio coordinato. Era il 10 settembre 2001: il giorno dopo il mondo cambiò con l’attentato alle Torri gemelle. Le maestre ci aiutarono a capire cosa stava accadendo».
Il giorno musicale?
«Quando sono entrata in studio per registrare “2640”, il terzo album. Era un disco di passaggio come musicista e autrice. Provavo a uscire dalla categoria del pop immediato che ci aspetta da una uscita da un talent. Avevo i provini di “Vulcano”, “Bolivia” e “Scusa se non ho gli occhi azzurri”: eravamo tutti gasati, ricordo il fonico fra il divertito e l’emozionato. Era un momento di grande libertà, non avevo nulla da perdere».
Cosa rappresentò la vittoria a «X Factor» 2011?
«Sentivo una grande insicurezza. Avevo 16 anni e non mi rendevo conto di quello che accadeva. I ragazzi che oggi vanno a un talent sono più consapevoli e spesso hanno già una gavetta alle spalle. Per questo decisi di tornare a scuola a finire l’anno. Mia madre mi aveva fatto capire che se poi fosse andata male avrei fatto più fatica a reinserirmi in un percorso di studi».
Adesso è in arrivo la laurea al Conservatorio. Livello di tensione?
«Sarà a febbraio, ma sono meno preoccupata di quanto non lo fossi in altri momenti di studio. In fondo alla laurea porti una discussione e un concerto su un argomento a tua scelta».
Soggetto?
«Charles Mingus: ha personalizzato il jazz tanto che lui stesso è diventato un genere. A chi non conosce il jazz direi che era uno con l’ossessione costante per l’identità: aveva origini tedesche, afroamericane e orientali e di conseguenza non era accettato né dai bianchi, né dai neri, né dagli asiatici. In un mondo ossessionato dalle etichette è riuscito a evitarle e ha creato qualcosa di unico e immortale».