la Repubblica, 26 ottobre 2021
La rabbia giovane si chiama 33
Dei 26 anni che ha, 33 ne ha trascorsi in carcere sei. È entrato nel 2012, sedicenne, ed è uscito nel 2018, ventiduenne. Un suo verso dice: «Ho perso del tempo come un carcerato». Fuori, perdere tempo è una grande libertà, un lusso, una sfida da vincere. Una canzone d’amore dei Phish, Waste, dice proprio questo: Came, waste your time with me, vieni a perdere il tuo tempo con me. È la parte migliore dello spreco: l’idea che non tutto quello che facciamo o consumiamo debba gemmare, produrre.
Per un recluso, non quarantenato ma prigioniero, è diverso e unico e non si può descrivere, si può soltanto dire come lo dice 33: un carcerato perde tempo come un carcerato, che pure ha le giornate vuote, anzi svuotate e può occuparle, ma non riempirle, e non c’è invenzione virtuosa che possa sanare questa differenza. È il punto che interroga più profondamente chiunque rifletta sulla detenzione e sui diritti che lo Stato esercita sui detenuti: può una collettività privare un uomo del suo tempo? Cosa si toglie a un ragazzo quando gli si sottrae il tempo? «Nei miei occhi vedi fame. Sto tornando, fallo sapere a tutti». È la didascalia del nono post Instagram (nove in due anni e più) di William, 33 – e se gli chiedi il cognome ti dice che basta William, soltanto William, grazie: conta l’altro nome, la cifra che usa per firmare la sua musica. Non è un’inezia e non è così frequente che un artista molto giovane, ora che personaggio e persona combaciano, ribadisca: di me conta il personaggio, vi do quello e basta – quando è morta Raffaella Carrà abbiamo pensato tutti che, con lei, fosse finito il tempo dello spettacolo distinto dalla spettacolarizzazione di sé.
Il post di 33 annuncia una canzone, più precisamente un featuring, quindi una collaborazione con altri artisti: featuring è scritto in alto, dove di solito, sui post di Instagram, si indica dove ci si trova, in altre parole dove ci si geolocalizza. È un bel dettaglio, certamente non casuale. Può voler dire: sto in quello che faccio. Se c’è una cosa che non interessa a chi ha vent’anni in questo tempo è evadere, vaneggiare: stare, per loro, è davvero un perfetto sinonimo di essere. Per questo osservarli è così importante per conoscere e capire dove mette i piedi il presente, su cosa cammina.
Dice 33 a Repubblica : «Trentatré sono gli anni di Cristo; è il numero della prima cella che mi hanno assegnato quando sono finito in carcere, e avevo con me la Bibbia che mi aveva dato mio padre e che fece di me un credente; è il numero maestro delle persone che toccano il fondo e poi risalgono, da sole».
Risalire, non rinascere: risalire è fai da te, e nel rap il fai da te è cruciale – ci sono alcuni rapper che a volte ricordano quegli orridi discorsi da self made man che andavano molto nella golden age del berlusconismo, ma non è questo il caso. 33 non è pieno di sé, né usa il suo passato per gonfiare il suo personaggio: il suo personaggio è l’artista. A lui fare l’artista interessa, molto più che esserlo. E non si dà meriti: quando canta il mio flow è un mistero di Fatima, lo fa da fedele. La fame che ha 33 gli viene da quel tempo che ha perso come un carcerato: non è smania di successo, o riscatto, o prestazione. È la forma più pura di desiderio, quella che nasce da una mancanza.
Dice a Repubblica : «Il mio sogno più grande è poter diventare qualcuno. Non per comprare orologi ma perché i miei testi possano aiutare chi si sente solo, chi ha sbagliato e crede di non poter rimediare. Io sono stato aiutato».
A lungo, soprattutto nei primi anni dentro, 33 non scriveva più come faceva da libero. Faticava. «Parlavo con il muro, scrivevo lettere ma non canzoni. Poi ho sentito di un corso di rap, mi sono iscritto subito».
Lì ha conosciuto Kento, scrittore, rapper e da molti anni operatore presso le carceri minorili: è stato amore a prima vista.«Lui non sapeva niente dei miei errori, del perché fossi lì: gli ho portato le mie canzoni, mi ha detto che avevo talento, ha parlato con il giudice e mi ha fatto uscire in articolo 21 per farmi registrare un pezzo. Non lo dimenticherò mai».
Il mese scorso, questo giornale ha pubblicato un’indagine sulla delinquenza minorile in Italia, Ragazzi dentro, che conteneva molti dati sulle carceri per ragazzi dai quali emergeva che non sbaglia Gemma Tucilio, responsabile del dipartimento nazionale della giustizia minorile, quando afferma che «quello minorile è il sistema di carcerazione e di pena meglio funzionante in Italia».
Il lavoro di molti artisti come Kento, in parte, lo dimostra. Dice lui stesso a Repubblica : «A dicembre del 2019, nel penitenziario di Casal del Marmo, a Roma, abbiamo organizzato il primo poetry slam in un carcere minorile, e con la scusa del rap abbiamo creato un clash tra poesia e rap». È importante, grande quello che con il rap si riesce a fare con gli adolescenti reclusi: dà loro un linguaggio, una spinta, una chance.
Kento dice spesso che in molti anni di lavoro nelle carceri minorili ha visto di tutto e incontrato chiunque, tranne ragazzi ricchi: finisce dentro chi non può pagarsi un buon avvocato, chi non ha una buona famiglia alle spalle e chi non parla bene l’italiano.
Diversamente da Massimo Pericolo, che nel suo disco d’esordio ha raccontato il carcere perché in carcere ha scritto buona parte delle canzoni che lo compongono, 33 non racconta la cella. E anche se si chiede «possibile che ce l’hanno con me?», quando rima con trentatré, dice anche «la colpa è mia» e come molti rapper e trapper vuole essere un buon figlio – «Ho detto a mamma: ce la farò».
D’amore non parla mai perché «è troppo difficile scrivere una canzone d’amore, ci provo e non ci riesco anche se sono molto innamorato, ed è la mia più grande fortuna ».
L’estate scorsa, con ODE, ha cantato: «Mi sento molto triste se non sono felice, il primo amore della vita prima o poi sparisce. E chi ti dice che è felice, mente. Chi ti dice che è triste, lo sente». Il primo pezzo che ha scritto, da uomo libero, si chiama Ho ucciso io la trap, ma non ne va molto fiero – forse perché non ha ucciso la trap. È uruguayano, vive in Italia con la sua famiglia da quando aveva due anni e ama Milano moltissimo. Dice che è «la città delle opportunità: come mi ha tolto, così mi ha dato».
Non ha ancora registrato un disco, ha scritto pochi pezzi, ha detto poche cose: si farà, e ha già le spalle larghe. Ha una storia che non lo ha reso rancoroso, però arrabbiato sì. Dalla rabbia senza rancore nascono le società nuove: approfittiamone, se siamo capaci.