la Repubblica, 26 ottobre 2021
E Lévi-Strauss ridimensionò homo sapiens
Cinquant’anni fa, proprio in questi giorni, usciva L’uomo nudo di Claude Lévi-Strauss, il più grande libro di mitologia del Novecento. E che si chiude con le cento pagine più belle della storia dell’antropologia. Era il mese di ottobre del 1971 quando l’editore parigino Plon mandava in libreria questo volume che conclude una serie di volumi che va sotto il nome di Mitologica, una entusiasmante cavalcata attraverso i miti amerindiani. Cominciata con Il crudo e il cotto, proseguita con Dal miele alle ceneri e con Le origini delle buone maniere a tavola allargando via via il suo campo, come un drone della mente, fino a diventare una vertiginosa riflessione sul senso di quella scatola nera dell’essere che è il mito.
Che cosa significano i miti? Cosa vogliono dirci nel loro linguaggio poetico e cifrato, fatto di animali veggenti e di astri viventi, di oggetti parlanti e piante sapienti? Dove le bestie sono umanizzate e gli umani animalizzati. La risposta del più grande antropologo di sempre è spiazzante. La mitologia riporta fino a noi l’eco di un tempo in cui l’uomo non era separato dagli altri regni del creato. Di una arcana corrispondenza tra gli esseri che la modernità ha mandato in frantumi. È l’immemoriale e remota unità degli enti e dei viventi di cui parla Baudelaire – amatissimo da Lévi-Strauss – che ha lasciato una dolorosa scia colma di oblio, nel mito come nella poesia e nella musica, le regioni dell’anima dove il logos non ha sopraffatto il pathos. E dove la ragione non ha sottomesso l’emozione.
Di fatto il profeta dell’antropologia, cioè la scienza dell’uomo, in questo libro dà lo sfratto a sapiens dal piano nobile del pianeta. E così mette in discussione il fine stesso delle scienze umane, che a suo avviso non hanno il compito di costruire l’uomo attraverso il discorso, bensì di dissolverlo reintegrandolo nella natura. La sua è una professione di anti-umanismo che ne fa un anticipatore di molte delle tendenze del pensiero contemporaneo, dall’ambientalismo all’anti-specismo, dall’animalismo al biocentrismo. E mette in guardia dai pericoli dell’antropocene. Insomma, la sua è una lotta senza quartiere contro l’antropocentrismo, che dimentica i diritti del vivente in nome di un’idea astratta della vita. Perché fa dell’uomo il sovrano assoluto del pianeta e della sua riproduzione il fine ultimo della natura. «Nessuna situazione mi pare più tragica, più offensiva per il cuore e per l’intelligenza – diceva il padre dello strutturalismo – di una umanità che coesiste con altre specie viventi su una terra di cui queste ultime condividono l’usufrutto e con le quali non può comunicare ». Insomma, all’idea illuminista del progresso come trasformazione e assoggettamento della natura, si sostituisce una visione tragica della faglia che divide l’uomo dagli altri esseri, entrambi mutilati perché incomunicanti e separati dall’altra parte di sé.
In fondo L’uomo nudo porta alle estreme conseguenze il pensiero di Lévi-Strauss e lo manda in rotta di collisione con la filosofia, che pone al centro di tutto il soggetto. Contro questa filosofia, laica o confessionale, esistenzialista o idealista, cattolica o marxista non fa differenza, l’antropologo spara ad alzo zero, accusandola di essere la paraninfa dell’Io, di «preferire un soggetto senza razionalità a una razionalità senza soggetto». E questa razionalità senza soggetto è proprio quella che opera nei miti. Che non nascondono nessun messaggio cifrato, nessuna verità, metafisica o ideologica, ma in compenso svelano il pensiero delle società che li tramandano. I miti sono uno specchio della mente umana che usa materiali sempre diversi messi a disposizione dalla storia e dalla geografia per trasformarli in simboli universali. Proprio come il linguaggio, che svolge una funzione universale attraverso parole diverse. Non è un caso che in quegli stessi anni un linguista come Noam Chomsky affermava che non parliamo ma siamo parlati dal linguaggio. Per analogia non sono gli uomini a pensare i miti, ma sono i miti che si pensano negli uomini.
Di fatto, cinquant’anni fa Lévi-Strauss metteva l’antropologia in connessione diretta con i saperi e le sensibilità del futuro. Perché, come mostra L’uomo nudo, non si è limitato a essere un notaio delle differenze, un etnografo scrupoloso e tedioso di questa o quella società.
Ma si è dato il compito di definire le regole che da una parte rendono possibile la varietà delle culture e, dall’altra, di tale varietà definiscono i confini. Ponendosi così alla confluenza dell’antropologia e della letteratura, nel senso che dava a questo termine Roland Barthes, cioè di un sapere che racchiude in sé molti saperi, un’officina della scrittura in cui sono presenti tutte le scienze.
Dalle pagine di questo libro emerge insomma un pensatore che proietta il suo “sguardo da lontano” su uno scenario di straordinaria vastità e che non si lascia ricondurre entro i confini di una disciplina. In realtà, con questo moralista classico in presa diretta sullo stato d’urgenza planetaria l’antropologia è andata fuori di sé «per seguir virtute e canoscenza», fino a oltrepassare le colonne d’Ercole delle scienze umane e revocare in questione l’opposizione tra natura e cultura. Anticipando quell’eclissi dell’umano che oggi ha tanta parte nel pensiero e nella sensibilità contemporanee. La sua amara profezia è che l’uomo è un episodio. Prima di lui e dopo di lui c’è la vita. E la terra un giorno orbiterà senza avere a bordo passeggeri umani.