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 2021  ottobre 25 Lunedì calendario

Intervista a Gianni Vasino

Lo squillo del suo telefonino è il passato che ti sussurra all’orecchio qualcosa di bello; ricordo sonoro di un amore mai tradito, che da 40 anni si rinnova ogni giorno. Lui, come suoneria, ha scelto infatti la trombettante musichetta ben nota a tutti gli italiani con molto «calcio» nel sangue: la storica sigla di «90° minuto».
Benvenuti nella macchina del tempo di Gianni Vasino, 84 anni, portati con la soavità di uno dei suoi servizi che tanto piacevano a «mister» Paolo Valenti, allenatore di una squadra irripetibile da Coppa Rimet degli ascolti: negli anni d’oro si arrivò a punte di 20 milioni (il «90° minuto» di oggi, quando va proprio bene, non arriva neppure a un milione). Ma fare un paragone tra l’antico programma ideato dal trio Barendson-Valenti-Pascucci e quello moderno sarebbe assurdo come paragonare una tela di Caravaggio a un taglio di Fontana. Gianni Vasino, «all’anagrafe Giannantonio Vasino, nato a Serravalle di Berra il 5 novembre 1936, giornalista italiano» (così recita la sua scheda su Wikipedia), fu assunto in Rai nel 1970, proprio l’anno di nascita della trasmissione che sarebbe diventata il faro domenicale per i naufraghi del pallone. Era ancora un’Italia in bianco e nero, i televisori avevano le valvole e, prima di «accendersi», si faceva in tempo a portare giù l’immondizia. Allora il calcio era considerato «roba da uomini» e, in quel contesto, il Vasino era l’uomo giusto al posto giusto: un po’ perché Gianni in video dava una certa sensazione di autorevolezza, un po’ perché lui da giovane a pallone ci aveva giocato davvero («coriaceo terzino fluidificante, alla Cabrini», la sua autodescrizione). Un mix di rassicurante telegenia e competenza in materia che trasformarono Vasino in uno dei pilastri del «90°» nazionale, divenuto nel frattempo l’appuntamento fisso della domenica pomeriggio capace di fermare nei bar qualsiasi attività in corso, foss’anche la più improcrastinabile: dalla briscola alla partita a biliardo; dal bicchiere di spuma all’ultimo pettegolezzo sulla cassiera.
Silenzio, parla Paolo (Valenti). E dopo la lettura della schedina (il «13» era il miraggio di tutti, ma ci si sarebbe accontentati anche di un popolare «12»), ecco partire i collegamenti. E Gianni, avendo «giurisdizione» su San Siro con le big Milan e Inter, era tra i primi a ricevere la linea dallo studio. Con lui, Valenti andava sul sicuro. Vasino era affidabile, preciso, obiettivo, senza inflessioni dialettali, a suo modo elegante nel vestire; per citare una battutaccia in voga tra quelle carogne dei suoi colleghi: «Vasino non la fa mai fuori dal vaso...». A differenza di qualche altro che, tra il gruppo dei «Valenti-boys», «fuori dal vaso» tendeva a farla spesso e volentieri. Ma Gianni – da gran signore qual è – i nomi degli incontinenti non li fa neppure sotto tortura. Benché si tratti del segreto di Pulcinella. È cosa nota, ad esempio, che Tonino Carino (da Ascoli) tendesse «leggermente» a esagerare nel tessere le lodi del presidente Costantino Rozzi; che Luigi Necco (da Napoli) prediligesse lo show personale alla cronaca della partita; che Franco Costa (da Torino, sponda Juve) quasi svenisse per l’emozione alla sola apparizione, in lontananza, di Gianni Agnelli. Ma l’elenco dei casi (casi umani, a volte) potrebbe essere ben più lungo. Meglio stendere un velo, anche perché quasi tutti i protagonisti della «banda Valenti» sono passati a miglior vita.
Gianni Vasino, lei – toccando ferro – è in gran forma e tra i pochissimi sopravvissuti del primo, mitico, «90° minuto». Meglio i telecronisti di allora o quelli di oggi?
«I colleghi di oggi hanno tolto la poesia al calcio».
In che senso?
«Troppe annotazioni tecniche, troppe pagelle, troppa partigianeria, troppe urla».
Voi di «90°» eravate più sobri.
«Se qualcuno di noi andava sopra le righe, Valenti il giorno dopo ci faceva il mazzo».
Addirittura.
«Paolo era una persona gentile che ci lasciava la massima libertà. Però non sopportava la faziosità. Voleva che fossimo obiettivi e distaccati, pur senza cadere nella freddezza e nella banalità dei commenti».
Lei in questo ruolo era perfetto. Ma certi suoi colleghi...
«Erano tutti dei bravi professionisti. Qualcuno, diciamo così, si faceva trascinare da un eccesso di tifo e gusto per la teatralità».
Resta celebre il suo botta e risposta con Luigi Necco da Napoli, in perenne polemica con le «milanesi».
«Abboccai alla provocazione una sola volta. Il Napoli aveva vinto tre a zero e lui del collegamento dallo stadio San Paolo ci salutò indicando tre con le dita; la volta che poi il Napoli perse al Meazza 4 zero, gli resi la pariglia facendogli ciao con le 4 dita».
Paolo Valenti come reagì?
«Con un sorriso. Raccomandò, come sempre, di non esagerare ma credo che, sotto sotto, questi siparietti lo divertissero. Anche perché sapeva bene che erano graditi anche al pubblico».
Ma sempre rimanendo nei canoni dell’educazione.
«Anche nelle polemiche e nelle frecciatine mantenevamo un certo stile».
Nei talk sportivi odierni insulti e volgarità sono all’ordine del giorno.
«Inconcepibile per la filosofia-Valenti. E anche per il mio modo di intendere il nostro mestiere».
Voi eravate fin troppo ingessati. Quel comportamento, oggi, sarebbe anacronistico.
«Non sono d’accordo. Certe regole di educazione e rispetto dovrebbero rimanere sempre valide».
Ma l’alchimia vincente dei tanti personaggi di «90° minuto» è stata frutto del talento di Valenti nel trovare giornalisti tanto «caratterizzati» (le giacche shocking di Cesare Castellotti; il clamoroso riporto tricologico di Franco Strippoli; la confusa affabulazione di Marcello Giannini; i capelli tinti di Giorgio Bubba, eccetera) o si è trattato di pura casualità?
«Valenti non faceva provini o selezioni personali. Si limitava a chiedere alle sedi regionali di indicare i giornalisti più idonei. Quello per 90°minuto era considerato un impegno prestigioso. Si faceva a gara per andare alla corte di Valenti».
Lei un po’ di scouting l’ha fatto. Ad esempio ha scoperto Antonella Clerici in una tv privata e l’ha portata in Rai.
«È vero. Antonella era brava e bella. Ha cominciato con me e ha poi proseguito con Gianfraco De Laurentiis. L’enorme successo che ha ottenuto è però tutto merito suo».
«Enorme successo», ma pure enormi gaffe. La più clamorosa: quando in un’intervista avrebbe voluto dire Non posso vivere senza calcio, ma, invece di calcio, disse una parola con una lettera in meno e, con a centro, una doppia «z».
«Antonella ha tra i suoi pregi anche quello dell’autoironia, si sarà fatta una sonora risata».
In gioventù è stato ufficiale degli alpini, è vero che ai suoi ordini ha avuto una recluta speciale: un certo Giampiero Boniperti.
«Io non ero il suo diretto superiore, ma prestavamo nella stessa caserma. Diventammo amici e continuammo a frequentarci anche da civili».
L’esperienza militare le è stata utile nel prosieguo della carriera giornalistica?
«I valori di solidarietà, onestà e amor di patria tipici del corpo degli alpini, non si dimenticano una volta che ci si leva la divisa. Restano parte di te, come una seconda pelle. Io ho sempre offerto una mano ai colleghi più inesperti a crescere, ma l’ho fatto solo con i giovani che avevano l’umiltà di farsi aiutare. I presuntuosi e i saputelli li ho sempre lasciati al loro destino».
Un specie di «nonnismo» in salsa buonista...
«Dai nonni c’è sempre da imparare qualcosa».
Ci racconti lo scoop a cui è più affezionato.
«L’intervista a Gelindo Bordin quando arrivò primo alla maratona di Seul».
Quella dove Bordin al traguardo si inginocchiò baciando la terra.
«Esatto. Fui il primo ad avvicinarmi col microfono. Lui mi guardò e cominciò a descrivermi la corsa. Era un fiume in piena. Quel suo racconto fece il giro del mondo».
Un altro «colpaccio»?
«A Perth, in Australia. Giorgio Lamberti aveva appena vinto i 200 metri. Mi riconobbe e sbottò: Ma tu sei sempre qui?. Scoppiammo a ridere. Fu un’intervista divertente».
Tra i suoi amici eccellenti, spicca Nereo Rocco.
«Giusto. Rocco aveva però un carattere strano: o stavi nel suo giro, o niente».
Che significa «stare nel suo giro»?
«Beh insomma, voleva sempre comandare lui».
Altro amico e collega: Mario Corso. Un aneddoto su di lui?
«Conducevamo insieme un programma sul campionato di serie B. Prima di andare in onda, mi ripeteva sempre: «Mi raccomando Gianni, fammi domande semplici».
Nel suo curriculum figura anche una partecipazione, nel 1989, come navigatore, al rally di Montecarlo a fianco del campione Dario Cerrato. Cosa c’entra Vasino con l’automobilismo?
«Nulla. Infatti credo di essere l’unico giornalista al mondo che ha gareggiato in un rally internazionale senza neppure avere la patente».
Altra memorabile impresa «sportiva». Quando, nel 1988, in occasione dello scudetto del Milan, corse insieme con i giocatori rossoneri durante il giro d’onore lungo la pista del campo.
«Dopo qualche metro, cominciai ad avere il fiatone. Inoltre quel delinquente di Franco Baresi cercò anche di farmi cadere, facendomi lo sgambetto».
Il giorno dopo il Corriere della Sera le dedicò un titolo: «La bella e spericolata corsa del giornalista Vasino».
«Valenti, prima della partita decisiva contro il Como, mi aveva detto: Gianni, in caso di vittoria del Milan, inventati qualcosa. Mi venne l’idea di mettermi a correre con i giocatori neoscudettati, ma quando Paolo mi vide che stavo diventando paonazzo, ordinò dallo studio: Fermati Gianni, va benissimo così».
Un’intuizione giornalistica di cui va particolarmente fiero?
«Per il Tg2 delle 13 inventai la trasmissione Come noi, dedicata ai problemi dei disabili, un tema purtroppo sempre troppo trascurato dai mezzi di informazione».
Esiste anche un Vasino scrittore.
«Sì. Negli anni ’70 ho pubblicato Malavita senza segreti, un saggio su droga, politica e la mafia dei caruggi: dal mistero Sutter alle Brigate Rosse.
Temi «tosti».
«Ho cominciato con la cronaca nera. Una scuola fondamentale. Ma con tante insidie. Quando si seppe che stavo lavorando al libro, cominciai a ricevere un sacco di telefonate: Mi raccomando, non mettere il mio nome...».
Altra esperienza letteraria?
«Sempre nello stesso periodo. Scrissi Bandiere ombra e armatori fantasma, sul fenomeno delle carrette del mare».
Altro argomento delicato.
«Essendo stato assunto alla Rai di Genova, conoscevo il porto come le mie tasche. Lì, tra i marittimi, avevo informatori di ogni genere che mi raccontavano le loro storie. E la maggior parte erano storie drammatiche».
Nella bibliografia manca la sua attività primaria: lo sport.
«Lacuna compensata nel 2014, quando ho riassunto le esperienze professionali nel volume Da 90º minuto alle Olimpiadi, cronache di 30 anni di sport».
Ma in questi «30 anni» non ha mai pensato di cambiare la suoneria del telefonino?
«No. A ogni squillo ringiovanisco di un anno. Per la gioia mia e di mia moglie».