La Stampa, 25 ottobre 2021
Intervista all’economista Noreena Hertz
Poi, a un certo punto, ci siamo ritrovati soli, tragicamente soli. È successo durante la pandemia di Covid-19 ma, secondo l’economista britannica Noreena Hertz, il processo di sfilacciamento della comunità era già in corso da almeno mezzo secolo, una specie di baratto, la globalizzazione avanzata al prezzo della solitudine degli uomini e soprattutto delle donne. Direttrice del Centre for International Business and Management dell’Università di Cambridge, Hertz è considerata una delle più acute critiche del capitalismo contemporaneo. In questa intervista con La Stampa, realizzata a margine del festival «L’eredita delle donne», ragiona di come colmare il gender gap aiuterebbe la riorganizzazione della vita in chiave sociale, l’exit strategy dal mondo afasico di cui parla nel suo ultimo saggio appena tradotto in Italia, Il secolo della solitudine. L’importanza della comunità nell’economia e nella vita di tutti i giorni (Il Saggiatore).
Il villaggio globale non è mai stato tanto concreto quanto oggi. Com’è che, nel frattempo, siamo diventati così soli?
«È cominciata negli anni 70, poi, negli anni 80, la solitudine si è imposta come cifra sociale. Da una parte, l’adozione del modello neocapitalista che privilegia la competitività su tutte le altre qualità. Dall’altra noi, noi che abbiamo preso a settarci come individui più che come comunità, a sfidarci anziché collaborare. Anche la musica pop ha registrato il cambio di passo, da un certo punto in poi si è imposto un linguaggio individualista, non c’era piu "We are the champion" ma sempre io, io, io».
Sul bagnato, lo racconta anche nel suo libro, è piovuta la pandemia.
«Quando il Covid ci ha chiuso in casa eravamo già molto domestici, meno chiese, meno partiti, meno associazioni. I social media erano da anni il paradosso di una umanità loquacissima eppure profondamente sola. Prima della pandemia un italiano su dieci si diceva solo, uno su cinque sentiva di non avere amici, il 40% degli impiegati non trovava alcuna sponda relazionale in ufficio. La pandemia ha peggiorato la situazione, adesso una persona su due si vede sola».
Quanto impatta la solitudine sulle donne?
«Prima della pandemia tutti gli studi indicavano quanto la solitudine mordesse a 360°, donne, uomini, giovani, vecchi, poveri, ricchi. A stare peggio erano forse gli under 24. Con il Covid, invece, tre categorie hanno accusato il colpo: i giovani, i lavoratori a basso salario e le donne. Le donne, in particolare, hanno sofferto moltissimo l’accresciuta mole di lavoro domestico, la violenza coniugale, l’impossibilita di ricevere aiuto esterno, dai nonni alla baby sitter».
A che punto è la demolizione del tetto di cristallo che impedisce un concreto «empowerment» femminile?
«Non abbiamo fatto moltissimi progressi. Per quanto le donne non abbiano mai occupato tante posizioni di potere quante oggi, restano sottorappresentate. C’è stato un momento di ottimismo, sul finire del secolo scorso, ma è solo perché partivamo da zero. Certo, ci sono Paesi come l’Islanda che sono più avanti. Ma, mediamente, il gender gap è ben lungi dall’essere colmato, e il mondo è più povero».
In Italia ha per giorni tenuto banco il dibattito seguito alle affermazioni di un celebre medievista, il professor Alessandro Barbero, secondo cui sarebbero le differenze strutturali tra uomo e donna a ostacolarne la parità.
«Non conosco il professore. Ma sappiamo da infinite ricerche scientifiche che i nostri tratti caratteriali non sono definiti alla nascita dal genere. Invece il cervello, se parliamo di uomini e donne, è estremamente plastico. Significa che carattere e personalità sono formati dall’ambiente in cui viviamo, i messaggi che riceviamo, i modelli a cui siamo esposti, la geografia del potere nella nostra dimensione domestica, le opportunita che ci vengono offerte. Sono i fattori culturali, sociali ed economici le ragioni per cui le donne continuano a essere sottorappresentate nelle posizioni di potere».
Come possiamo invertire la tendenza, avere cioè più donne in posizioni di potere ed essere meno soli?
«Interessante è il rapporto tra la diffusione della solitudine e l’avanzata dell’estrema destra populista. Ne parlo diffusamente nel mio libro. Sin dagli anni 80 un gruppo di persone è stato morginalizzato in termini economici e oggi sappiamo che all’interno di questo gruppo i populisti sono rappresentati in maniera sproporzionata. Come invertire la marcia? I governi possono agire sul piano locale, investire nelle infrastrutture di comunità, ricostruire quei posti fisici come bibliotece e centri di aggregazione che a partire dal 2008 sono via via scomparsi. La solitudine è un problema sociale acuto che va affrontato, anche perché ha anche effetti sanitari gravi. Sappiamo che l’infarto colpisce il 24% di più le persone sole. E sappiamo che i social network hanno pesato e pesano negativamente, creano dipendenza, sono l’industria del tabacco dei tempi moderni».