la Repubblica, 25 ottobre 2021
Quel milite ignoto da un secolo
Il 4 giugno 1911, in una mattinata all’inizio piovosa anche se si era alle soglie dell’estate, venne inaugurato a Roma il più grande monumento dell’era moderna: il Vittoriano – o Altare della Patria. Vittoriano si riferiva non ad una qualche vittoria bensì a Vittorio Emanuele II al quale era stato attribuito il titolo, non del tutto appropriato, di Padre della Patria. I veri “Padri” in realtà erano stati altri, il generoso Garibaldi, l’illuminato Mazzini, il conte di Cavour, uno dei migliori intelletti politici dell’Europa ottocentesca, morto appena cinquantenne in quello stesso anno, 1861, di cui in quel 1911 si stava celebrando il “Giubileo”. La statua equestre di Vittorio Emanuele troneggiava imponente al centro della prima terrazza. La candida mole dell’edificio era stata costruita, dopo più di vent’anni di lavori, sbancando mezza collina del Campidoglio, utilizzando 40 mila metri cubi di marmo detto botticino proveniente da una cava in provincia di Brescia, patria del ministro Giuseppe Zanardelli. Del resto, bresciane erano anche le imprese che l’avevano lavorato così come gli scalpellini che lo avevano materialmente strappato alla montagna.
Quel monumento, che sarebbe poi stato lungamente (e a torto) criticato, doveva contrapporsi con la sua mole abbagliante, tale rimasta negli anni, all’altra mole, quella della basilica di san Pietro, simbolo di un’Italia laica, leggermente venata di massoneria. Si era voluto che anche la patria avesse il suo “Altare” per bilanciare l’altro, quello dove celebravano i pontefici che per secoli avevano dominato Roma. Sul frontone dei due propilei che aggettano alle estremità del porticato figuravano le scritte dedicatorie: Patriae Unitati, Civium Libertati, all’unità della patria, alla libertà dei cittadini. Non si sarebbero potuti riassumere meglio propositi, speranze, prospettive della giovane nazione italiana. Giovanni Giolitti aveva definito il monumento: «Marmoreo inno alla patria».In quella radiosa mattinata, dopo la leggera pioggia iniziale, sembrava che tutto l’insieme, l’imponente costruzione, i suoi fregi, la scalea, i propilei, le statue, le colonne, il sontuoso coronamento e soprattutto l’imponente statua di Vittorio Emanuele a cavallo, fiero, bellicoso, in cima a un colossale piedistallo, al centro dell’intera rappresentazione, sembrava che tutto dovesse restare fissato per sempre nei suoi richiami e significati, fulcro di un anno memorabile, aperto dalle feste del Cinquantenario, chiuso in settembre dalla guerra di Libia («Tripoli, bel suol d’amore»). Del resto, Giolitti aveva anche detto che quella montagna di marmo bianco rappresentava una: «Epopea scritta sopra pagine di marmo e di bronzo che sfidano i secoli».
Invece durò solo una decina d’anni perché, nel 1921, il Gran Re dovette adattarsi a condividere il monumento a lui dedicato con un’altra figura, molto più umile, ma anche molto più significativa, quella del Milite Ignoto. Una presenza destinata, soprattutto dopo la caduta della monarchia nel 1946, ad oscurare quasi completamente la sua. L’idea di onorare un soldato senza identità in rappresentanza di tutti i caduti fu del colonnello (poi generale) Giulio Douhet, grande teorico della Guerra Aerea, che inaugurò così un’usanza poi largamente ripresa anche all’estero. La decisione di trovare un modo per onorare i caduti in guerra circolava in Europa; fu però di Douhet l’idea di onorarne uno di cui non fosse possibile accertare l’identità, a nome di tutti.
Nell’agosto del 1921 il Parlamento approva la legge «sulla sepoltura della salma di un soldato ignoto» per una volta all’unanimità. La decisione apre un rituale allo stesso tempo glorioso e macabro, intriso di retorica e di strazio. Una commissione mista di ufficiali, sottufficiali e soldati, visita vari cimiteri di guerra. Vengono esumate delle salme, si scartano quelle identificabili per la piastrina di riconoscimento o anche solo per le mostrine reggimentali. Se ne scelgono sei raccolte in altrettante bare uguali. Tra queste, il 28 ottobre, Maria Maddalena Bergamas, triestina, madre di un disperso, ne indica una gettandovi sopra il suo velo nero. La storia di questa famiglia è molto indicativa. Antonio, figlio di Maria Maddalena, era nato a Gradisca d’Isonzo, al tempo in territorio austro-ungarico, quindi arruolato nell’esercito austriaco. Nel 1916 però il giovane Antonio fugge in Italia e viene aggregato al 137° reggimento di fanteria col falso nome di Antonio Bontempelli per evitare ritorsioni contro i suoi familiari. Il 16 giugno di quello stesso anno, mentre guidava l’attacco del suo plotone, venne falciato da una raffica di mitraglia. La sua salma venne poi travolta da un bombardamento del cimitero per cui lui e i suoi compagni vennero ufficialmente considerati “dispersi”. Si può immaginare con quale stato d’animo sua madre, Maria Maddalena, compì la dura incombenza che le era stata proposta. Durante il rito, scortata da quattro decorati di medaglia d’oro, stringeva tra le mani un fiore bianco, quello avrebbe dovuto gettare su una bara scelta a caso. Si sbaglia, equivoca, è travolta dall’emozione, scoppia in singhiozzi. Invece del fiore, getta il suo velo nero di “mater dolorosa” così però perfezionando senza volere il gesto, quel velo nero sottolinea inconsciamente il significato di un lutto che non potrà mai essere consolato. Il treno che trasporta la bara di colui che è ormai il “milite ignoto”, guidato da ferrovieri decorati al valore, attraversa l’Italia tra due ali praticamente ininterrotte di popolo, i più inginocchiati, molti con le lacrime agli occhi, le donne spesso in prima fila, dolenti, luttuose, partecipi, in una delle più sentite, unanimi, commemorazioni collettive mai avvenute nella storia del Paese. Il convoglio è composto di sedici carri che via via si colmano di corone e di fiori, quello che trasporta la bara reca il verso dantesco «L’ombra sua torna ch’era dipartita» e le date MCMXV- MCMXVIII.
A Roma si svolgono le esequie solenni. Sul frontone della basilica di Santa Maria degli Angeli è stata apposta una scritta che dice: «Ignoto il nome/ folgora il suo spirito, dovunque è l’Italia;/ con voce di pianto e d’orgoglio/ dicono innumeri madri:/ è mio figlio». La mattina del 4 novembre, la bara viene trasportata fino al Vittoriano dove sarà tumulata. Le immagini testimoniano di una scalea fiancheggiata dalle bandiere di tutti i reggimenti, gran folla, visibile partecipazione emotiva. Con un’apposita legge quella data, 4 novembre, è stata dichiarata festa nazionale.
La scelta di un caduto ignoto, il modo in cui il rito venne ideato, il complesso monumentale all’interno del quale la salma venne tumulata, tutto dice di quale carica simbolica quel soldato senza nome venne rivestito. Oggi il Vittoriano è il suo monumento, povero fante contadino venuto chissà da quale parte d’Italia, morto senza volere né vedere, accecato dal buio della terra.