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 2021  ottobre 24 Domenica calendario

Storia del milite ignoto


Ossa sparse, mescolate. Brandelli di corpi immarcesciti e misti alla terra, povere cose che un tempo erano vita, carne, sangue, persone. Povere cose a cui è difficile dare una sepoltura, un nome. E che dai campi di tutta Europa, dove la natura inizia a reimpossessarsi delle trincee e delle «terre di nessuno», interrogano le coscienze dei vivi. Levano loro il sonno.
Questo l’amara veglia di un’Europa che entrata, sonnambula, nel Primo conflitto mondiale non riesce più ad assopire il senso di colpa, milioni di morti e cinque anni dopo. Senza contare le centinaia di migliaia di madri, padri, figli che continuano ad invocare che almeno il disperso, colui che non è mai tornato dall’inferno del campo di battaglia, possa dirsi morto, possa riposare in pace. Così nasce, e si diffonde tra i Paesi che hanno partecipato al conflitto, l’idea del Milite ignoto. Di un corpo anonimo che si faccia simbolo. Che incarni tutte le sofferenze della nazione e, in qualche modo, dia pace a chi pace non può più avere.
Nel caso italiano il milite ignoto, prescelto tra 11 bare anonime, venne alla fine tumulato nel Vittoriano il 4 novembre del 1921, cento anni fa. Il trasporto della salma dalle zone del fronte verso Roma si trasformò in una costante mobilitazione di masse. In un momento di presa di coscienza collettiva, di catarsi ma anche di tensione. Perché il corpo di quel soldato senza nome rivestì, per un intero popolo, significati molto diversi. Per capirli è di grande aiuto il libro che verrà pubblicato proprio il 4 novembre per i tipi della Leg: Il milite ignoto. Storia e mito di Laura Wittman (euro 20, pagg. 278). Il volume, che vanta anche un corposo materiale fotografico, racconta nel dettaglio tutta la vicenda. Ma sopratutto il clima complesso in cui si sviluppò. A partire dalla proposta lanciata dal colonnello Giulio Douhet che diede il via alla vicenda. «Tutto sopportò e vinse il nostro soldato. Tutto. Dall’ingiuria gratuita dei politicanti e dei giornalastri che sin dal principio cominciarono a meravigliarsi del suo valore, quasi che gli italiani fossero dei pusillanimi, alla calunnia feroce diramata per il mondo a scarico di una terribile responsabilità... Nel Pantheon deve trovare la sua degna tomba alla stessa altezza dei Re e del Genio».
Come si vede già da questa formulazione dell’agosto 1920 – Douhet sostenne sempre che l’idea non era sua ma che nasceva direttamente dal basso, dai combattenti – sotto la figura del Milite si muovevano anche idee di critica e di contestazione verso la politica del governo. Spaziavano dal pacifismo al rifiuto della vittoria mutilata che animava la ribellione dannunziana. Non a caso d’Annunzio declinò, come spiega la Wittman, la partecipazione alle cerimonie ufficiali anche se dedicò al Milite pagine accorate dell’edizione 1921 del suo Notturno: «Dentro la basilica di Aquileia una madre dolorosa sceglieva tra le undici bare innominate quella che sta per discendere nel monumento...».
Le forze politiche tentarono di sterilizzare e di incanalare questi sentimenti quando, in fine, licenziarono quasi all’unanimità il progetto di legge per la «Sepoltura della salma di un soldato ignoto», presentato alla Camera dei deputati il 20 giugno 1921, pochi giorni prima delle dimissioni del quinto governo Giolitti. Si procedette in fretta, ma spostando il luogo dell’inumazione al meno problematico altare della Patria, lontano da salme di Re. Giunti al dunque, il 4 agosto, Luigi Gasparotto, ministro della Guerra del nuovo governo Bonomi, chiese agli oratori di rinunciare a pronunciare discorsi e proseguire «senza abuso di parole», anche per evitare interventi antimilitaristi. Anche così il carico di emozione e di dolore, che si materializzarono attorno all’evento, furono, nel caso italiano, troppo forti per essere ridotti ad una formula univoca e governativa. Non ci riuscì del resto nemmeno, negli anni successivi, la propaganda di un fascismo che voleva farsi Stato. Uno dei pregi del testo della Wittman è proprio quello di scoperchiare, e raccontare nel dettaglio, queste tensioni emotive sotterranee. A partire dal fatto che la tomba «celebra l’essenza più profonda e primitiva del corpo a discapito dell’identità... come per dire che le parole erano state annientate».
E quella corporeità straziata, che doveva essere di tutti, richiese difficili equilibri, sospesi tra il burocratico e il sacrale, tra la paura della morte e il senso di cameratismo, tra l’apotropaico e la retorica. Si creò una apposita commissione per recuperare undici corpi. E quasi dar sostanza ad un’altra frase dannunziana: «Voi gente lorda e greve di sotterra, voi in quel punto non eravate se non fiamma celere, non eravate se non anima splendida, come in un Resurressi».
E perché il «corpo mistico» fosse scelto a caso si cavillò di bare assolutamente uguali, si discusse di posizioni, di chiodi, di venature del legno. Solo il caso, attraverso gli occhi di una madre che aveva perso il figlio in guerra senza riaverne le spoglie, doveva scegliere, nella basilica di Aquileia, questo Alter Christus senza nome. Il compito toccò, il 28 ottobre 1921, a Maria Maddalena Bergamas. Avrebbe dovuto rappresentare l’Italia orbata dei suoi figli (altri Paesi avevano preferito un uomo per la scelta), posare il fiore bianco sulla bara prescelta. Fuori programma, si fermò davanti alla seconda delle undici bare, in preda a improvviso dolore, «come se avesse visto il corpo al suo interno», si strappò il velo e lo gettò sulla cassa. Nessuna trascendenza ma un lutto oscuro e ctonio. Quasi una chiamata dal mondo dei morti.
Era l’inizio del lungo percorso che portò il Milite a Roma. La nazione aveva un simbolo che poi sarebbe stato tirato a destra dal fascismo e a sinistra dalla Resistenza. Ma per molti che andarono a vederlo passare era «il figlio senza nome della nazione...» che «si era alzato ed è disceso nel suo cammino come un fiume». E tanto doveva bastare per chi aveva perso tutto, persino un corpo su cui piangere. Il resto era e resta vuota retorica.