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 2021  ottobre 24 Domenica calendario

Un’altra intervista a Pif

Davanti al menu del ristorante, subito un ostacolo: “Può scegliere per primo?”. Perché? “Se poi quello che prende è meglio del mio, ci resto malissimo”. Prosciutto? “Cerco di evitarlo, spesso proviene da allevamenti intensivi; (pausa) però non sono integralista”. Pif è un equilibrio o un equilibrista perenne tra stati d’animo, manie esplicitate e affrontate, curiosità, dubbi, qualche risposta ai dubbi, consapevolezza, orgoglio e allo stesso tempo rammarico per uno “status borghese che mi porta a essere pure moralista”; ha il coraggio di non nascondersi dietro qualche frase di circostanza, vezzo d’artista, qualche “ma” o “però” ammiccante. E a 49 anni ha lo sguardo, il viso e l’abbigliamento da 18enne ancora in crisi con l’abbinamento dei colori e i capelli grigi, spettinati, “perché mi ricordano mio padre”.
Ieri a Roma ha presentato il suo terzo film da regista, E noi come stronzi rimanemmo a guardare (produzione Sky Original), in cui racconta la storia di un manager finito in disgrazia (il bravissimo Fabio De Luigi), diventato rider, ovviamente sfruttato e abbandonato dal suo mondo fino a quando si innamora di un algoritmo.
Film anche divertente, anche amaro, anche con intuizioni di cronaca come il festino tra nostalgici di Hitler (“Mafia e Ventennio sono tra le mie fisse”), esattamente come le commedie all’italiana, in cui il regista è spesso un testimone dei propri e dei futuri tempi, un bambino in cerca dei perché.
Questo film rispetto a La mafia uccide solo d’estate…
È più crudo e in qualche modo rientra bene in questo periodo di solitudine post-Covid; il mio esordio aveva una visione più ottimista.
Dov’era quando hanno ucciso Falcone e Borsellino?
Con Borsellino, ero vicino a via D’Amelio: dopo lo scoppio sono andato lì con gli amici, convinto di una fuga di gas; dopo la morte di Falcone era impensabile che lo Stato non difendesse un bersaglio come lui. Una ingenuità di me ventenne.
Una volta a casa…
Prima di quelle stragi a Palermo andavamo avanti come niente fosse, della serie: se non disturbi la mafia, loro non ti vengono a cercare.
Si dedicava all’attività politica?
Avevo le mie idee, ma non in maniera esplicita; poi nel giorno dell’omicidio di Salvo Lima venne in classe il preside e con aria grave cercò la nostra partecipazione: “Sapete cos’è successo?”, e giù il racconto. Lì è apparso il mio primo atto di ribellione. “Chi va con lo zoppo impara a zoppicare”.
Davanti a tutti.
Il preside mi chiese di ripeterlo; oggi può apparire banale, ma allora non lo era (pausa). Frequentavo il liceo della borghesia palermitana, dove gli amici erano prevalentemente di destra e le prime discussioni politiche e di mafia nascevano a bordo piscina; (sorride) quando uscivamo, un amico neopatentato aveva il vezzo di fare inversione a “U” in una via e ogni volta rischiava di prendere in pieno un cancello. Nel gennaio del 1993 arrestano Totò Riina e scopriamo che abitava esattamente dietro quel cancello.
Com’è nata la sua passione per la regia?
Negli anni 80 papà aveva una piccola casa di produzione cinematografica, ogni tanto andavo con lui e in qualche modo ho acquisito i primi rudimenti di inquadratura, audio e montaggio. Ed è stata la mia fortuna: se non ci fosse stato mio padre, visto il mio carattere, probabilmente non avrei mai affrontato questa professione.
Perché?
Non so dare gomitate; quando vado nelle scuole ripeto ai ragazzi: “Se ce l’ho fatta io, c’è speranza per tutti”. E non lo dico per modestia, ma oggettività; (cambia tono) sono pure timido, e nonostante questo sono andato avanti senza spinte: quando lo rivelo non ci crede nessuno.
Il suo esordio è stato con Le Iene.
Grazie a un incontro con Davide Parenti (ideatore del programma, ndr): lui non mi ha chiesto di chi fossi figlio, da dove venissi e altre informazioni secondarie; abbiamo solo parlato e poi ha deciso di mettermi alla prova.
Quanto era agitato?
Più che altro incosciente: nel 2000, a Mediaset, ho frequentato un corso come autore televisivo e gli insegnanti erano professionisti dell’azienda; io ero così inconsapevole e fuori luogo da dare del “tu” a tutti, come se fossimo un gruppo di amici, compreso Pasquinelli (poi capo dell’intrattenimento Mediaset, ndr). Nella mia testa eravamo creativi e quello era l’approccio giusto; a fine corso Pasquinelli mi guarda e svela il rischio corso: “Ti volevo cacciare a calci nel culo”.
Lei a Milano da Palermo.
Alle Iene rappresentavamo il Partito comunista di Mediaset, nel senso che non potevamo frequentare il mondo delle stelle, il mondo vip, non potevamo comprometterci perché poi non saremmo stati liberi di prenderli in giro nei servizi; oggi non potrei più indossare i panni della Iena.
Si è compromesso.
Mi sono imborghesito, non sono più un outsider; allora andavo a Montecitorio a prendere per il culo i politici, mentre ora rischierei di venir riconosciuto e finirebbe la sorpresa (nei suoi servizi Pif andava da un soggetto “x”, gli poneva la domanda e mentre il soggetto iniziava a rispondere lo abbandonava perché trovava un protagonista migliore).
Qualcuno dei politici si è realmente offeso?
Molti si sono proprio incazzati, e si vede, ma non so altro perché fuggivo per l’imbarazzo; la prima volta fu con Maurizio Costanzo, quando Costanzo era ai vertici di Mediaset: gli girai le spalle fingendo di aver visto Giorgio Mastrota. Umiliazione massima. Poi sono tornato da lui: “Ho sbagliato, era solo uno che gli assomigliava”.
E Costanzo?
Se non sbaglio domandò: “Ma chi è questo coglione?”. Il bello è che alle mie vittime non rivelavo di essere de Le Iene, sempre per la vergogna.
Le pesa essere un personaggio pubblico?
Per Il testimone è stato un problema: la telecamera piccola doveva eliminare la sensazione di tv, doveva essere un occhio neutro, tanto da far dimenticare al protagonista di essere ripreso. Dopo La mafia uccide solo d’estate è cambiato l’atteggiamento verso di me.
Cioè?
Di buono c’è che mi hanno aperto porte inusuali, tipo stare a due centimetri da Roberto Bolle mentre si riscalda prima di salire sul palco della Scala.
Il male.
Volevo intervistare una modella qualunque prima della Fashion Week di Milano, e quando sono arrivato la ragazza si è presentata con l’autista perché il manager aveva preparato l’occasione per farla apparire quello che non era; nel momento in cui sono io a cambiare la tua vita, io sono un uomo morto; (pausa) un giorno un tredicenne mi ha definito “quello che filma la vita” e resta il complimento più bello mai ricevuto.
(Al ristorante entra Quentin Tarantino, Pif viene invitato al suo tavolo per il dolce. Resta perplesso, spiazzato: “Che gli dico? Ciao, collega?”).
Da regista come si trova a gestire gli attori?
Ho un serio problema a relazionarmi con le persone, per questo vorrei lavorare sempre con gli stessi. Ma non si può. Insomma, mi imbarazzo.
Anche qui.
Eh, lo so.
Agli attori dice “non va bene, rigiriamo”?
Sono il re del rifacciamolo: sempre per la storia che amo il montaggio, voglio arrivarci con più versioni e scegliere la migliore. Così rompo le palle.
Il regista è spesso un confessore della troupe.
(Sguardo sofferente) Sono un anaffettivo; lo so, è un dramma, ma sto cercando di migliorare.
Che intende per anaffettivo?
Una volta ho letto la giusta definizione sulla Treccani, però non sono più riuscito a ritrovarla; comunque ho sentimenti ma non riesco a esternarli ed è un po’ il dramma della mia vita; da ragazzino mi chiedevano: “Ma hai capito?”.
Un problema.
Non so neanche ricevere i complimenti, mi imbarazzano. Quando mi arrivano sul cellulare, ogni volta rispondo: “Grazie!”, con tanto di punto esclamativo. Per me è una grandissima manifestazione, invece molti si offendono e pensano che me la sto tirando.
Quando si riguarda da attore?
Oramai ho superato lo choc, ma spesso taglio i miei primi piani perché il film non deve essere una lotta tra me e l’ego; (sorride) In In guerra per amore il direttore della fotografia mi disse: “Ma almeno in questa scena lascialo, il pubblico viene pure per te”; ho inoltre capito che non posso essere regista e primattore: troppo faticoso.
Infatti ora c’è Fabio De Luigi.
Abbiamo in comune un punto: subiamo le situazioni; quando nel film si incavola, fa ridere perché si percepisce la sua scarsa abitudine allo sbrocco e trasmette la sensazione di voler chiedere subito scusa. A lui sono proprio grato.
Ha mai fatto a botte?
Una volta ho ricevuto un pugno, ma non ho trovato la forza di rispondere: mi faceva pena (arriva il cameriere: “Vuole un dolce?”. “No, grazie. Lo prendo con il collega Tarantino”).
Ha iniziato come aiuto alla regia.
Di Franco Zeffirelli in Un tè con Mussolini e di Marco Tullio Giordana ne I cento passi; con Zeffirelli era una produzione così grande da risultare io inesistente, infatti non sono neanche nei titoli di coda.
Il suo compito?
Per anni mi sono vantato di essere stato l’assistente di Zeffirelli, in realtà lui aveva un cane e me ne occupavo: non per colpa del maestro, ma perché ero l’ultimo arrivato in un cast pazzesco; ne I cento passi è andata meglio.
Cosa l’ha delusa del set?
In quella fase della vita, in ogni posto dove andavo, ero sempre l’anello debole e non capivo perché si scatenassero contro di me; forse per la solita storia di non saper esternare i sentimenti, ma alla fine subivo.
Un Malaussène.
I tecnici di Zeffirelli mi guardavano male perché arrivavo sul set alle 9 e non alle 7 come gli altri: il problema è che aspettavo il maestro e il suo cane.
I suoi film hanno budget importanti.
Solo alla fine delle riprese chiedo quanto è costato, perché mi sento in colpa: ho paura di non farli rientrare dei costi.
Perché indossa i calzini al mare?
Chi le ha rivelato questa storia? (Pausa) Non sopporto le cose piccole, le miniature, fisicamente mi danno ribrezzo: ricordo quando da bambino mia sorella mi passò le scarpine di Barbie e non riuscivo a prenderle in mano; (cambia tono) un giorno intervisto Bebe Vio e lei, per rispondere al cellulare, si stacca il braccio e me lo dà. A me viene un’espressione di dolore, e me ne vergogno subito, ma non era per il braccio, ma perché c’era sopra un braccialetto. Non lo sopportavo.
Ma i calzini al mare?
Per me le dita dei piedi sono la miniatura delle mani e mi fanno schifo; quando in primavera le donne indossano i sandali, soffro, e per affrontare questa sofferenza li guardo tutti e me li ricordo.
È un artista?
(Dopo un’infinita pausa e un’infinita serie di risposte iniziate e non terminate) Sì, penso di poter far parte di quel mondo, però sono molto borghese e il mio limite è che sono pure bigotto e moralista; se fossi un prete condannerei tutti all’inferno compreso me stesso.
Esagerato.
No, sono severo, un estremista e questo bigottismo non mi aiuta come artista: il vero artista non deve essere borghese; (pausa) nei miei film non ho mai messo un nudo né una scena di sesso. Non ci riesco. Così come le parolacce: non posso pensare all’idea di una famiglia che va a vedere un film e si trova davanti a un seno, un culo o una volgarità (ripete a macchinetta). Sì, sono un bigotto e un moralista.
Chi è lei? Non dica un moralista…
Durante il lockdown ho passato le giornate affacciato alla finestra di casa per controllare che la gente buttasse l’immondizia nel secchione. E se non accadeva urlavo “è là, è là!”. Poi mi davano retta e scappavano. Vabbè, alla fine mi odieranno tutti (Arriva la proprietaria del ristorante: “Non va da Tarantino?”. Lui resta zitto. Viso disperato. “E ora cosa gli dico?”).