Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2021
Il matrimonio tra Filippo il Buono e Isabella
il 7 gennaio 1430, dopo la benedizione nuziale nella chiesa di Sluis, un corteo condusse la duchessa a Bruges. Ad accoglierla c’era una fanfara di settantasei trombettisti; Isabella non sapeva dove posare gli occhi. Dalle zampe di un leone sgorgavano vino rosso e bianco. Un cervo urinava un getto continuo di ippocrasso. Uno scoiattolo teneva tra le zampe una caraffa dalla quale cola va acqua di rose. I tre animali, intagliati nel legno, erano dipinti in modo tale da sembrare veri. Dovunque Isabella guardasse, vedeva qualcosa. L’ horror vacui borgognone celebrava l’ennesimo giorno di fasti. C’era di tutto, di più, dovunque. Bruges si era trasformata in un trionfo d’archi, decorazioni e tableaux vivants. Ospiti venuti da ogni dove sfoggiavano tenute di tutti i tipi.
Perfino la palette di colori con cui Van Eyck aveva ritratto la giovane sposa doveva impallidire al confronto della massa variopinta che sfilò per le strade di Bruges quell’8 gennaio. I cronisti lavorarono senza sosta per offrire descrizioni interminabili degli invitati più importanti, producendo pagine che sembrano un Who’s Who del 1430. Nel suo entusiasmo, uno di questi autori contò cinquemila partecipanti, mentre un altro parlò di centocinquantamila spettatori: numeri trionfali che, come sempre, vanno presi con le pinze. Molte case furono nascoste da ponteggi allestiti per l’occasione: i proprietari affittavano un posto a chi desiderava ammirare il corteo nuziale dall’alto.
La contessa non fu certo l’unica a meravigliarsi di fronte a quello spettacolo. Filippo aveva trasformato la sua capitale economica in un grande teatro. Commestibili o meno, gli entremets lasciarono stupefatti gli invitati. La sorpresa più grande fu un montone blu dalle corna dorate che usciva da un enorme pasticcio in crosta. Questa immensa costruzione di pasta sfoglia nascondeva inoltre un gigante che, con sommo diletto dei presenti, si mise a saltellare con una nana. Il duca era raggiante. Aveva acquistato la lillipuziana in Ungheria per una piccola fortuna. Ed ecco che all’improvviso comparve anche una persona in sella a un maiale arrostito. Più in là c’era un cinghiale impagliato che espelleva ravanelli quando gli si girava la coda. C’è bisogno di dire che gli ospiti mangiarono a dismisura, che Bruges – come Cambrai nel 1385 – si riempì per diversi giorni di cavalieri che rischiavano la vita affrontandosi in giostre equestri, che i presenti non avrebbero mai dimenticato quel giorno e ne avrebbero parlato a tutti?
Gli stemmi delle signorie del duca esposti ai tavoli non si trovavano lì per caso. Quella che sembrava un’ingegnosa formalità era in effetti una calcolata mossa di marketing. Filippo sfruttava la gastronomia e le belle arti per esibire il suo potere. E per mostrare a tutti che il nonno l’Ardito era stato superato dal nipote il Buono. Sfoggio che batteva altro sfoggio. Certo, Isabella poteva occupare il posto d’onore al fianco del duca, ma le nozze servirono soprattutto a incoronare Filippo re della monarchia teatrale borgognona.
Da dove proveniva la predilezione di Filippo per la teatralità e gli effetti speciali? Per cominciare, il duca seguiva ovviamente le orme del nonno, che in quanto figlio di un re era cresciuto nei fasti della corte di Francia e aveva poi sfruttato feste e cerimonie funebri per assicurare alla Borgogna un posto sulle carte geografiche d’Europa. Ma nella strategia pubblicitaria ducale rivestiva un ruolo non meno importante un castello fiabesco, eredità di Margherita delle Fiandre. Il dominio di Hesdin, che aveva già solleticato l’immaginazione di Filippo l’Ardito, consorte di Margherita, stimolò più ancora quella del nipote. Evocare la storia di questa monarchia senza parlare di Hesdin è come partecipare a un banchetto borgognone in cui non si aprono botti di Beaune. A partire dal 1288, Roberto d’Artois, uno dei più celebri cavalieri del XIII secolo, aveva riunito a Hesdin una curiosa collezione di automi e invenzioni decorative. Conosciuto essenzialmente nella storiografia belga per essere stato il comandante militare francese ucciso l’11 luglio 1302 con un goedendag, una mazza chiodata fiamminga, questo conte era uno spadaccino dotato di grande fantasia.
Se, nel caos della sua vita relativamente breve, Giovanni senza Paura aveva avuto poco tempo di lasciarsi incantare dalle meraviglie di Hesdin, suo figlio Filippo subì fin da giovane il fascino delle sculture che sputavano acqua, degli specchi deformanti, delle trappole che facevano cadere i visitatori su sacchi pieni di piume, del ponte che cedeva sotto il peso dei passanti e li faceva ritrovare nel fossato del castello. Da una parte c’era un monaco di legno, dall’altra una civetta: tutti apparecchi che potevano parlare. Su un leggio era aperto un libro di ballate posto sotto una luce che metteva voglia di sfogliarlo, ma, non appena lo si faceva, si era bagnati da un getto d’acqua. Un altro automa invitava i presenti a uscire dalla stanza, ma chi gli obbediva veniva percosso da un altro automa ancora, mentre chi restava riceveva di nuovo uno spruzzo.
L’acqua era centrale in questo parco divertimenti ante litteram. A Filippo, sensibile alla bellezza femminile, doveva piacere l’idea che certe installazioni ingegnose alzassero le gonne alle donne e poi bagnassero loro le gambe. Hesdin ospitava poi false scimmie e leoni dotati di meccanismi che li facevano avanzare o arretrare. Tutto aveva un aspetto molto artificiale, ma l’effetto era garantito, e gli invitati sembravano adorare questa singolare combinazione di burle e illusionismo.