Il Sole 24 Ore, 24 ottobre 2021
Intervista a Piero Ferrari
«La prego, lei si sieda davanti a me, nel posto che era di mio padre Enzo. A pranzo, noi ci mettevamo sempre così. Il cibo ci ha unito. Uno di fronte all’altro, agli estremi di questa lunga tavolata. A capotavola, si accomodava l’invitato del giorno. Poteva essere un pilota o un fornitore, un cliente o un amico di infanzia. Jacques Villeneuve o Giulio Andreotti, Niki Lauda o il principe Bernardo di Olanda. Oppure Jackie Stewart, nei giorni in cui io conducevo le trattative per il suo passaggio in Ferrari. Il rituale della disposizione a tavola è sempre stato questo».
La cortesia di Piero Ferrari – classe 1945, una figlia (Antonella) e due nipoti (Enzo e Piero) – è pari alla sua mitezza. Essere figlio di una leggenda, di solito, uccide chi è portatore di questo destino. Piero – nonostante il dolore e la complessità, la felicità e l’anomalia di una ombra così alta e incombente – ha trovato una sua identità equilibrata e solida: una cosa non da poco, se tuo padre è stato uno dei maschi alfa del Novecento, forza e carisma, fama e velocità.
Piero ha lavorato per la Ferrari: «Mi sono sempre occupato dell’organizzazione degli acquisti nella scuderia. Ricordo con soddisfazione quando, su suggerimento di Villeneuve, fummo i primi a collocare il cambio con le palette al volante prima sulle monoposto e poi sulle gran turismo. La versione iniziale non convinceva Jacques, io lo portai all’ufficio tecnico dal progettista, alla fine mettemmo i pulsanti da schiacciare con l’indice e il medio dietro alla razza del volante». Ha ereditato da suo padre il 10% del capitale della società, di cui è vicepresidente e amministratore non esecutivo. Da imprenditore ha investito in una serie di aziende: ora ha il 12% del gruppo di nautica Ferretti e il 40% della società di ingegneria Hpe-Coxa di Modena. Ha l’educazione del gentiluomo di campagna, timido per carattere, ma affabile e attento agli altri come sanno ancora essere gli emiliani e i romagnoli.
Al Cavallino di Maranello mi accomodo al posto che mi indica Piero, con il timore reverenziale che coglierebbe ogni italiano cresciuto con l’immagine del Drake e dei suoi occhiali scuri, della scuderia di Formula 1 e del fascino che Enzo Biagi, nella biografia pubblicata da Rizzoli nel 1980, così delineava: «Mi sembra uno di quei personaggi del West, avventurosi, forti, prepotenti, drammatici, che allevavano bestiame, costruivano ferrovie, scoprivano il petrolio, e portavano in sé, fino all’epilogo, visioni di conquiste e struggenti passioni».
In questa sala, in fondo al ristorante, Enzo Ferrari veniva a mangiare ogni giorno. Il lungo tavolo rappresenta bene lo strano spirito democratico di questa terra, in cui la gerarchia mentre si mangia si affievolisce e perfino il mito trasfonde in una particolare forma di comunità, per cui alla fine è naturale che tutti quanti, meglio se in tanti, siano seduti uno di fronte all’altro, uno di fianco all’altro.
Il Cavallino, che dal 1942 è di proprietà della Ferrari, è stato ristrutturato, affidato alle cure di una stella della cucina internazionale come Massimo Bottura, che a Modena ha la Osteria Francescana, e inaugurato questa estate: «Non c’è il maestro?», chiede con affettuosa ironia Piero Ferrari al cameriere. No, oggi Bottura non è a Maranello. I suoi ragazzi e le sue ragazze ci portano subito una rivisitazione dell’erbazzone: due sfoglie di parmigiano con all’interno una crema di battuta alle erbe. Quindi, una interpretazione della tigella, trasformata in un macaron farcito con parmigiano, lardo, una crema di aglio dolce e limone salato.
Ci troviamo nell’epicentro della fabbrica e dell’immaginario, della memoria e del futuro della Ferrari. Davanti al Cavallino, attraversata la strada, si apre l’ingresso di Via Abetone Inferiore 4, dove appena dopo la sbarra, sulla sinistra, si trovava il primo ufficio di Enzo Ferrari e dove, soprattutto, ci sono le linee produttive da cui escono le gran turismo. Alle spalle del Cavallino, sorgono invece la scuderia di Formula 1 e il reparto dedicato ai facoltosi appassionati che possono permettersi di comprare – e di lasciare in custodia qui, venendo a farle poi girare sull’anello di Fiorano – le monoposto storiche della Formula 1 o le automobili del programma FXX, le macchine che invece di andare in strada vengono potenziate nelle loro prestazioni e rimangono a disposizione dei proprietari per la corsa in pista.
Mentre leggiamo il menù del Cavallino, Piero sceglie il vino: «A me piacciono molto i rossi piemontesi, in particolare il Barbaresco che già amava mio padre, ma soprattutto amo i rossi toscani. Io andrei su una bottiglia di Rosso di Montalcino di Poggio di Sotto, del 2018. Che ne pensa?. Per me il vino è perfetto: «Le va bene se, come primo antipasto, prendiamo lo gnocco fritto con i salumi?», gli chiedo. Piero mi fa un cenno di assenso e di intesa e specifica: «Mi raccomando, non ci formalizziamo, lo gnocco fritto si mangia con le mani». Lo gnocco con prosciutto crudo, pancetta e mortadella è notevole. Come ulteriore antipasto, lui prende un carpaccio di salmerino alpino con porcini, sedano rapa e tè nero, mentre io vado su una crème caramel al parmigiano reggiano, fatta con una frittata di parmigiano di trentasei mesi, cipolla e aceto balsamico Villa Manodori. Quando dobbiamo scegliere il primo, la temperatura emotiva sale, perché – fra i piatti – compaiono i maccheroncini della Lina. «Lina era mia mamma. Era una grande cuoca. Un giorno ho raccontato la sua ricetta a Bottura, che se l’è scritta e poi ha fatto questa aggiunta al menù», racconta non senza un pizzico di nostalgia. I maccheroncini della Lina sono con una salsa ai tre pomodori, parmigiano reggiano e prosciutto crudo di trentasei mesi. Piero non può non sceglierli. Il piatto è molto invitante. Ma sono contento di avere preso i tortellini del Tortellante, in crema di parmigiano reggiano. Il Tortellante è l’associazione di Modena in cui ragazzi e ragazze con l’autismo lavorano e preparano pasta fresca, in un connubio meraviglioso fra intimità familiare e gusto, impegno quotidiano e solitudini allievate, pasta tirata a mano e vendite ai privati e ai ristoranti.
Lina era appunto la mamma di Piero. La nonna, da parte di padre, si chiamava invece Adalgisa: «Era l’unica persona a cui mio padre dava retta e a cui obbediva. Era di Forlì. Diceva sempre “noi romagnole discutiamo con il coltello sotto al tavolo”. Mio padre non voleva che io entrassi in azienda. Lei, invece, era favorevole. Mia nonna Adalgisa morì nell’ottobre del 1965. Io, come una intera generazione di imprenditori e di figli di imprenditori, mi ero diplomato all’Istituto tecnico Fermo Corni di Modena. Nel suo testamento mia nonna lasciò scritto, fra le sue ultime volontà, che io dovevo entrare in Ferrari. Il 1° novembre 1965 fu il mio primo giorno di lavoro. Mio padre non voleva che si pensasse a favoritismi. Per questo, ogni volta che mi assegnavano un incarico, ricevevo non più dello stipendio base previsto per quella funzione. Era un uomo duro. Ma non mi ha mai sopraffatto. Venire a mangiare qui con lui tutti i giorni, da soli o con gli altri, era un modo per legittimarmi in azienda e per manifestarmi affetto in privato. Lui era mio padre. Io ero, e sono, suo figlio».
Un secondo bicchiere di Rosso di Montalcino sta bene. Piero Ferrari non ha certezze sul futuro dell’industria dell’auto: «La transizione energetica non è univoca. Le grandi aree geografiche, come gli Stati Uniti, l’Europa e la Cina, seguono linee soltanto in parte sovrapponibili. In generale esistono l’elettrico, l’idrogeno, il nucleare, il biofuel. La Ferrari ha una ibrida, la SF90 Stradale. Nel 2025 uscirà la Ferrari elettrica, la prima senza il rombo Ferrari nel motore. La nostra società storicamente si è adattata molto bene ai mutamenti regolamentari. Cito sempre il caso americano: negli anni 70 gli Stati Uniti espressero a livello federale normative anti-inquinamento che, in California, ebbero una versione più stringente. Noi ci attenemmo allo standard californiano. Anche questo ci ha permesso, nei decenni successivi, di trasformare gli Stati Uniti nel nostro primo mercato».
Esiste un drammatico problema di conversione all’elettrico del sistema industriale europeo: «Riguarda anche la Motor Valley dell’Emilia-Romagna. Conosco bene le nostre imprese della meccanica e della componentistica. In molte hanno iniziato a operare con l’elettrico e con l’ibrido. Non sarà facile. Ma ho una visione realisticamente ottimista», dice Ferrari.
I camerieri ci chiedono se vogliamo un dolce. Piero glissa. Io, invece, prendo un paciugo di mascarpone, caffè, meringa e cacao. L’industria di oggi è un caos metamorfico violento e imprevedibile fra nuove tecnologie e una iper-regolamentazione che fa prevalere – ovunque, in Formula 1 come sul mercato della auto da strada – la “law” sugli “economics”. Dalle finestre del Cavallino entra la luce ancora tiepida che può avere il sole della Pianura Padana in un pomeriggio di metà ottobre. «Il primo giorno di lavoro – ricorda Piero, mentre beviamo il caffè – mio padre mi assegnò un compito: riordinare i documenti della cosiddetta stanza degli errori. Era una sala che custodiva cambi, leve, valvole, molle e bielle che si erano rotte durante le gare. C’era anche il mozzo della ruota che si era spaccato l’unica volta in cui la Ferrari, nel 1956, aveva corso a Indianapolis, con una macchina guidata da Alberto Ascari».
E, mentre Piero Ferrari racconta con serenità quel primo giorno trascorso a Maranello nella “stanza degli errori”, mi viene in mente, sull’enigma dei figli che rimangono e dei padri che non ci sono più, la poesia di Pablo Neruda: «È l’autunno. Padre, i tuoi dolci occhi non possono nulla. Ascolterò nella notte le tue parole: … figlio, figlio mio …».