Specchio, 24 ottobre 2021
Ritratto di Toni Servillo
Poche settimane fa, quando è salito sul palco del Festival di Venezia per ritirare il Premio Speciale della Giuria per lo splendido È stata la mano di Dio, Paolo Sorrentino ha ringraziato sia coloro che avevano collaborato al film che le persone più care. Toni Servillo appartiene certamente a entrambe le categorie, e quando è arrivato il momento di ringraziare lui, ha detto «qualcuno un po’antipatico dice "perché fai un altro film con Toni Servillo", e ora posso dirgli "guardate dove sono arrivato facendo i film con Toni Servillo"». L’attore ha sorriso e gli ha mandato un saluto pieno di amore e riconoscenza dalla platea, mentre il pubblico esplodeva in un lunghissimo applauso, e dalle immagini televisive traspariva anche una sincera e divertita commozione. Sarebbe ingiusto e assolutamente riduttivo limitare la splendida carriera di un magnifico attore come Toni alla semplice collaborazione con Paolo Sorrentino, ma è certo che rappresenta l’icona imprescindibile del suo cinema, grazie a interpretazioni diversissime e sempre memorabili. Marco Antonio Servillo, questo è il suo nome completo, è nato ad Afragola 63 anni fa e vive a Caserta. Ha ricevuto tuttavia la cittadinanza onoraria di Napoli nel 2014, a cui ha fatto seguito la laurea ad honorem nell’Università di Bologna nel 2015, mentre negli stessi giorni, il New York Times, lo indicava uno tra i più grandi 25 attori del ventunesimo secolo. L’arte appare per lui un modo di decifrare il mistero della vita, e ancor prima di celebrarlo: l’espressione artistica appare un elemento essenziale della sua formazione, come testimonia anche il lavoro del fratello Peppe, eccellente musicista. L’ho incontrato la prima volta in occasione della presentazione de L’uomo in più al Festival di Tribeca, dove era arrivato insieme a Paolo Sorrentino e un folto gruppo di collaboratori del film. All’epoca ero colpevolmente ignaro della sua carriera, già prestigiosa, ma ancora non celebrata dal grande successo popolare, e sapevo solo che era anche un ottimo regista lirico e teatrale: proprio in quel periodo aveva realizzato un allestimento di Sabato, Domenica, Lunedì di Eduardo De Filippo, che ha sempre visto come un imprescindibile punto di riferimento. Specie nel lungo monologo finale de L’uomo in più, l’interpretazione di Tony Pisapia, ispirato a Franco Califano, mi lasciò senza fiato, per la miscela di carisma, ironia e disperazione: se ne accorse il pubblico del Festival, che alla fine della proiezione gli tributò un’interminabile standing ovation. Quell’evento rappresentò l’inizio di una consacrazione internazionale che lo ha portato a vincere, finora, 4 David di Donatello, 4 Nastri d’argento, 3 Ciak d’oro, 2 Globi d’oro e 2 European Film Awards, senza dimenticare che salì sul palco insieme a Paolo Sorrentino e Nicola Giuliano quando La Grande Bellezza vinse l’Oscar come miglior film in lingua straniera: è merito del talento del regista se il personaggio di Gep Gambardella è indimenticabile, ma si deve certamente a Toni se ha trovato sullo schermo la propria compiutezza, grazie al modo in cui è riuscito a immortalare ancora una volta sfumature diverse di un carattere contraddistinto questa volta anche dal disincanto e un anelito di grazia e bellezza. Per una coincidenza, quei giorni del Tribeca avevo ricevuto un invito a vedere Alan Bates a Broadway che interpretava Pane Altrui di Turgenev diretto da Arthur Penn. Chiesi a Toni se volesse accompagnarmi e lui accettò con gioia: non ho mai visto nessuno che riuscisse a godere interamente del piacere di uno spettacolo, nonostante studiasse con attenzione tutte le scelte registiche e interpretative. E ricordo il calore con cui si prodigò negli applausi per quel collega che non conosceva di persona: poche cose mi hanno insegnato come sia importante, per un attore, anche affermato, sentire e far sentire il calore e il riconoscimento da parte del pubblico. Ha amato il teatro sin da piccolo, Toni, e ha iniziato a calcare il palcoscenico nell’oratorio dei salesiani di Caserta, città dove poi ha creato Teatro Studio, prima di iniziare a lavorare con Mario Martone, con cui ha fondato a Napoli Teatri Uniti. È con lui che debutta al cinema in Morte di un matematico Napoletano, prima di iniziare il sodalizio con Sorrentino, lavorando parallelamente con registi quali Marco Bellocchio, Roberto Andò e Matteo Garrone. A chi gli chiede di paragonare il proprio lavoro nel cinema con quello teatrale, risponde: «È impossibile una graduatoria. È un alternare fra due modi, due tecniche, due arti che consentono di ricavare vantaggi, di crescere, maturare, gioire. Diciamo che cerco di portare dal cinema al teatro i miei spettatori con lo stesso rigore, con la stessa coerenza. Comunque, al di là dei successi provenienti dal grande schermo, non ho mai abbandonato il teatro. Anche perché la mia formazione si è rafforzata sul palcoscenico. E adesso, semmai, metto a disposizione del cinema una formazione che viene dalla pratica teatrale». Poi, citando Louis Jouvet, spiega: «Per me il teatro è una chiave per offrire speranza, mettendo al centro l’impetuosa importanza della trasmissione del pensiero». Tra gli attori che conosco è uno di quelli con una maggiore cultura e solida struttura intellettuale, e parlando con lui risulta evidente che abbia compreso perfettamente l’importanza di porsi costantemente domande invece di offrire risposte. «Questa società il dubbio vuole metterlo da parte», spiega, «perché preferisce la certezza e il fare; mentre il dubbio è riflessione, ricerca di autenticità». Sul nostro patrimonio culturale, però non ha dubbi: di ritorno in Italia dal trionfo agli Oscar, spiegò con amarezza in un’intervista che «la cultura resta il nostro miglior biglietto da visita all’estero. Un credito illimitato pari solo all’incredulità degli stranieri per la nostra incapacità di valorizzare tale patrimonio».