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 2021  ottobre 24 Domenica calendario

Biografia di Sabina Guzzanti raccontata da lei stessa

Visto che siamo più o meno coetanee, pensavo di partire dal domandone… Vado? «Vuoi mettermi tensione, è una tecnica…». Ahah, no, è solo qualcosa che talvolta domando a me stessa. «Vai». Tu riesci ancora a immaginarlo, un mondo migliore? «Certo! Non solo riesco a immaginarmelo, ma me lo costruisco pure. Io vivo in un mondo migliore… beccati questa!». Sabina Guzzanti è in auto, cinque tacche teoriche sul telefono e la voce che a tratti brevemente scompare, «vuoi che ripeta?», «sì, grazie». Sta girando l’Italia per parlare del suo ultimo film, Spin Time, che fatica la democrazia! (girato a Roma nel palazzo occupato noto alle cronache per l’impresa del cardinale Krajewski che un giorno si calò nella centralina elettrica per riattaccare la luce) e per presentare il suo primo e corposo romanzo, di genere distopico, intitolato 2119. La disfatta dei Sapiens (HarperCollins). E sì, recentemente ha anche imitato con molto successo Giorgia Meloni, ma non sarà questo un argomento di conversazione: «Non parlo delle imitazioni. Le faccio, mi capita di farle tra una cosa e l’altra, ma da tempo non sono più il mio mestiere», dirà Sabina a un certo punto dell’intervista. Ok. Invece, sull’immaginare un mondo migliore, e addirittura viverci, un po’ rosico, perciò mi permetto d’insistere.
Provo a dirlo meglio. Ci sono stati anni in cui si pensava che attraverso l’impegno personale e di gruppo, le militanze, si potesse contribuire a creare una società diversa e più equa. A me pare che questa convinzione sia sempre più flebile, e che ci sia al contrario una tendenza, diffusa, a subire il fascino imbambolante del disastro.
«Non credo sia possibile generalizzare, ognuno reagisce a modo suo, la realtà è in buona parte una rappresentazione della nostra mente. È difficile creare delle relazioni, fare delle cose insieme a molti altri, questo sì. Lo è provare a diffondere idee diverse da quelle del mainstream. Questo però non significa che siamo impossibilitati a vivere secondo le nostre convinzioni».
Certo, ma è come se i più giovani fossero già cresciuti con l’amara consapevolezza che ben poco si possa fare per cambiare lo stato di fatto, a cominciare dalle loro condizioni di vita.
«Tra i giovani quest’idea passa moltissimo, perché non hanno avuto un’esperienza diversa. Noi siamo nate in un tempo in cui la creatività e il talento erano apprezzati, mentre oggi sono considerati un elemento di disturbo. Sono stata recentemente al Matera Film Festival, dove David Cronenberg ha descritto un cinema futuro in cui non ci sarà molto spazio per il talento. Capisci che un mondo in cui persino Cronenberg non può girare il film che vorrebbe… Quella attuale è una società che sostiene di voler difendere la democrazia senza comprenderne il rapporto con uno sviluppo culturale libero; ma la democrazia non è un’idea che trovi in natura, non può esistere se non esiste una cultura libera! Al contrario, la cultura commerciale non è fatta perché le persone possano conoscersi ed evolvere: al massimo ti fa provare un senso di relax, un po’ di sollievo nel rimandare il momento in cui farti domande sulla tua vita e sul tuo destino».
È questa, la disfatta dei Sapiens?
«Il tema del mio libro è la difesa del libero arbitrio. Nel futuro che racconto, il 2119, ne è rimasto molto poco: c’è un algoritmo che sta per cancellarlo completamente, e un gruppo di eroi impedisce che ciò avvenga».
Mi colpisce che questi eroi ribelli siano un gruppo di giornalisti, lo trovo un segno di grande ottimismo da parte tua.
«Non sono certo i giornalisti che vediamo in televisione, c’è una differenza fondamentale…».
Quale?
«Con la scusa di essere super partes, i giornalisti hanno da tempo rinunciato, e devono rinunciare se vogliono lavorare in televisione, a varcare un confine. Puoi descrivere la realtà così com’è, puoi anche raccontare cose tremende, ma non puoi mai dire: basta, ribelliamoci, tutto ciò deve finire. Penso sia questo il cambiamento più radicale imposto dalla censura. Tre le caratteristiche richieste a chi lavora nell’informazione c’è un atteggiamento erroneamente considerato saggio: l’accettazione dell’idea che le cose non possono cambiare, così sono e così sempre saranno».
Invece i tuoi giornalisti eroi…
«Sono gli ultimi giornalisti umani rimasti sulla Terra, perché il loro è diventato un mestiere da robot. D’altronde già ora sono in corso i primi esperimenti in questo senso: i piccoli trafiletti scritti dalla macchina, che fa ovviamente meglio di te il lavoro d’individuare la tag perché è impostata per questo, mentre tu devi starci attenta, perderci del tempo…».
A complicare le cose c’è la questione dei social network, che sono tra l’altro uno dei luoghi in cui la gente s’informa. È possibile secondo te una qualche forma di resistenza al di fuori di quella che, apparentemente, è rimasta l’ultima piazza pubblica?
«I social, e la dipendenza dai social, hanno una spazio importante nel mio libro. Per me era importante ricordare che web e social sono cose molto diverse: spesso vengono confusi, ma il web nasce per condividere il sapere, ispirandosi a ideali di libertà e democrazia, mentre i social sono controllo, sfruttamento degli utenti - inconsapevoli - e manipolazione delle coscienze. Si presentano come comunicazione alternativa e sono invece la spinta al conformismo più assoluto. Inoltre, portano scientificamente al peggioramento dell’umore, e quindi dei comportamenti, di chi li frequenta».
Sei riuscita a capire come ci si possa eventualmente proteggere?
«Non scrivendo sui social. Non c’è un’altra possibilità. La loro unica funzione utile è quella della promozione, della diffusione di appuntamenti. Promuovi un libro, un film, uno spettacolo, ma è là che stanno le idee, non certo sul social».
Tu ti regoli così?
«Parlo per esperienza personale, sì. Ho usato molto i social e penso d’aver preso il meglio che potevano offrire. Il mio film sulla trattativa tra Stato e mafia è stato distribuito in larghissima parte attraverso Facebook, ho fatto una striscia satirica finanziata col crowdfunding, però so - lo sappiamo in tanti, anche se non ce lo diciamo mai abbastanza - che non esiste neppure mezza possibilità di far passare attraverso i social un pensiero, non dico complesso, dico proprio un semplice pensiero, qualcosa che non sia già prefabbricato. Gli algoritmi d’altronde sono programmati per impedirlo».
Un conto è saperlo, un altro trovare la forza di starne fuori. C’è da fare i conti con la grande questione della visibilità personale, con la legittima aspirazione di ogni essere umano, anche di chi non ha nulla da promuovere se non il suo stare al mondo, all’essere riconosciuti…
«Poi però ti chiedi: perché solo le cose più cretine hanno milioni di like, mentre tutto quel che appare un po’ meglio non viene rilevato?».
Già, secondo te perché?
«Non certo perché la gente sia cretina, ma perché i social sono guidati da intelligenze artificiali e la loro funzione è ben riassunta dal celebre slogan: quando una cosa è gratis, la merce sei tu. Lo scopo è quello di consumarci, letteralmente. Chi gestisce i social network è diventato miliardario nel giro di pochissimo tempo vendendo i nostri dati, mettendoci oltretutto in uno stato d’animo molto vicino alla disperazione, basti pensare che chiamiamo amici quelli che neppure conosciamo. C’è un semplice esperimento che può fare chiunque sia dotato di una minima capacità d’introspezione: valutare il suo umore prima e dopo aver passato mezz’ora sui social. Dopo, hai l’impressione che l’umanità sia ridotta a un bravo di selvaggi cattivi e irragionevoli. Non è che la vita reale sia così, però i social pian piano trasformano la vita reale».
Tornare indietro da un modello regolato dagli algoritmi e dal mercato dei dati: mica facile.
«Non credo sia una questione di andare avanti o tornare indietro, ma di essere in un altro modo. Il futuro non è una contrapposizione tra opzioni diverse, ma si può essere un’altra cosa. Se sei un’altra cosa, sei già in un altro mondo, e sei pure in salvo, se la salvezza è l’obiettivo. Ma non funziona come abbiamo pensato fino a qualche tempo fa, che se tu diffondi le tue idee e le persone sono d’accordo, allora nasce una tendenza politica e culturale che porta al cambiamento: avere questo tipo d’influenza oggi non è pensabile. Essere un’altra cosa non significa essere d’accordo. Non so se è chiaro…».
Sì, abbastanza: possiamo dire che è - tra l’altro - la scomparsa della politica?
«Prima ancora, è la crisi della democrazia, che è una conseguenza della scomparsa della cultura, scambiata per intrattenimento. È attraverso un’opera che si fa esperienza di sé e del mondo, non certo attraverso un prodotto».
A proposito di democrazia, hai indagato su Spin Time, il palazzo occupato nel quale è stato girato il tuo ultimo documentario. Ti sei convinta che le piccole comunità auto-organizzate possano essere un modello cui guardare?
«Se non si è visto il film, non si può neanche lontanamente immaginare com’è quel luogo. Parliamo di una comunità molto composita, che convive attraverso un governo assembleare con tutto ciò che questo comporta, e che non viene da me idealizzata, ma rappresentata nella sua realtà e con argomenti anche crudi. Non è un lavoro che nasce per dire: che bello, questo sì è un posto! Non è quello lo spirito. Il tema è proprio il rapporto tra cultura e democrazia. Documento il fatto che le persone messe in condizione di esprimersi creativamente si comportano in un modo, mentre se non lo sono si comportano in un altro. Le stesse identiche persone, nello stesso momento. Questo è il tema. Mostro come i problemi di relazione siano gli stessi tra ricchi e poveri, perché è qualcos’altro che ci permette di comunicare».
Questo qualcos’altro, dove possiamo cercarlo?
«Torniamo sempre lì: va cercato nella cultura libera, intesa come ciò che ti offre la possibilità di esprimerti e di rispecchiarti».
Ti va di commentare l’uscita di scena della sindaca Raggi?
«No».
Spiace pensare che non la imiterai più.
«E questo chi l’ha detto?».