Specchio, 24 ottobre 2021
«Il videogiocò è bianco, maschio ed etero»
«Il bello di essere una donna che lavora nel design dei videogiochi è che quando ci sono i festival o i grandi raduni non si fa mai la fila al bagno». Sorride, Claudia Molinari, fondatrice con Matteo Pozzi di "We Are Müesli", uno studio di design indipendente di Milano focalizzato su giochi narrativi a tema culturale, storico e artistico. Un sodalizio che funziona il loro, «anche se a lui, con questo fatto che è uomo, lo intervistano di meno».
Claudia Molinari, in che senso immaginare e costruire un videogioco è un atto politico?
«Aristotele diceva che l’uomo è un animale politico e sociale. Come dargli torto? E dal momento che anche i videogiochi sono fatti da uomini e (oggi un po’ più di prima) da donne, ecco che scegliere cosa dire e come dirlo diventa, consapevolmente o inconsapevolmente, un’opinione, un punto di vista, un atto - appunto - politico. Giocare a un gioco d’azione dove i "cattivi" hanno un particolare accento, poter personalizzare il proprio avatar soltanto con determinate caratteristiche etniche, rappresentare un genere (guarda caso quello femminile) in maniera iper-sessualizzata, sono tutti messaggi che hanno effetti manipolatori più o meno rilevanti, a maggior ragione quando si raccontano come "non politici". Ecco perché diventa fondamentale avvicinarsi al linguaggio videoludico e capirne la potenza in quanto mezzo virale e popolare. Questo non per temerne gli effetti negativi, ma per abbracciarne il potenziale virtuoso che già solo la scelta di titoli, generi e autori intelligenti può innescare».
Chi sono oggi i "signori dei videogiochi", quelli con la maggiore capacità di influenzare gli utenti?
«Per me, che con il mio studio "We Are Müesli" faccio giochi indipendenti per la valorizzazione del patrimonio culturale, è più facile raccontare chi non sono i "signori dei videogiochi". È chiaro che a monte di un messaggio c’è il potere di riuscire ad arrivare al grande pubblico, e per potere intendo soprattutto quello economico. Allocare un budget dedicato alla comunicazione è più facile per una casa di produzione mainstream che per un piccolo studio. Ecco perché luogo comune vuole che gli utenti finali si dividano in due macrosegmenti: chi gioca tanto (troppo?), i cosiddetti "hardcore gamer", che spesso snobbano titoli più introspettivi a favore di quelli legati ad estetiche di sfida e competizione adrenalinica; e chi non gioca, chi pensa che sostanzialmente questo mezzo sia infantile e che chi gioca perda solo tempo. Tra questi segmenti c’è una molteplicità di nicchie interessate al vero potenziale inespresso del videogioco: quello di creare scenari, eterogenei e identificativi, dove poter esperire situazioni distanti dal proprio vissuto con empatia e vicinanza».
Anche nei videogiochi il modello dominante è il maschio bianco eterosesssuale?
«Decisamente. Forse di più che in qualsiasi altra industry. Non solo è un modello dominante da un punto di vista di utente finale ma anche di produttore. In quest’ultimo decennio ci si sta muovendo per far emergere titoli "diversi" concentrandosi anche sull’aspetto autoriale della produzione: chi è lo sviluppatore, anzitutto, via via fino ad aspetti apparentemente "minori" (ma che sono in realtà marcatamente "politici") come ad esempio la scelta di come tradurre un gioco per renderlo inclusivo anche nei confronti di un pubblico non-binary. Il lavoro curatoriale svolto da alcuni festival di settore come, per citare due nomi, IndieCade o Games for Change, diventa indispensabile per dare vita a modelli di narrazione alternativa rispetto al mainstream».
Ci sono videogiochi "buoni" e videogiochi "cattivi"?
«Potrei girare la domanda: ci sono libri o film, musica o arte "buona" o "cattiva"? Certamente c’è un confine, ma qui si entra in un territorio legato all’intero concetto di "etica" che la nostra società può avere, e alla responsabilità di chi i giochi li fruisce ma, soprattutto, li crea».
Spesso gli adulti fanno fatica a capire cosa fanno i loro figli durante i giochi. Consigli?
«Quando una coppia ha un figlio, ci si informa e interroga su tutto: dal produttore del cotone organico della tutina alle case editrici di libri che utilizzano carta e inchiostri atossici. Quando si arriva però all’età in cui un bambino vuole videogiocare, i genitori si pongono in maniera oppositiva, preoccupandosi solo degli effetti negativi o presunti tali che il mezzo può generare. Molti passano dal non aver mai toccato un videogioco a giocare a titoli spesso non adatti alla loro età. Trovo questo atteggiamento genitoriale altamente immaturo. È come se si vietasse di leggere fino ai 10-12 anni per poi lamentarsi che il primo libro con cui si viene a contatto è un libro osceno. I genitori devono iniziare a introdurre questo mezzo proprio con la stessa attenzione e curiosità che hanno con gli altri media e su tutto quello che concerne la crescita e l’educazione. Un primo passo sarebbe quello di andare a vedere chi sono gli autori o gli editori dietro ai titoli, proprio come si fa quando ci vengono consigliati dei libri. Quindi, il consiglio che posso dare è: giocare!».