Specchio, 24 ottobre 2021
Aiuto! Il gioco siamo noi
La vita è un gioco. Sembra ricordarcelo il successo planetario della serie sudcoreana Squid Game dove i giocatori replicano sfide da cortile in stile “1,2,3, stella!” per salvarsi la vita e diventare ricchi a scapito degli altri: benvenuti nel presente neoliberista, quindi, poiché è chiaro il riferimento alla realtà come grande video-gioco di survival, in un mondo sempre più sfigurato da competizioni disumanizzanti.
La vita è un video-gioco. È un bene? È un male? «Questo è il modo di essere che ogni uomo e ogni donna devono seguire: giocare i giochi più belli, pensati in modo opposto a quelli che oggi si praticano». Non lo dichiara un gamer di Silicon Valley, ma Platone, ricordandoci che «l’uomo (…) è stato inventato come giocattolo di dio, e in verità questo è quanto di meglio gli sia accaduto». La citazione appare anche nel Cacciatore Celeste (Adelphi) dove Roberto Calasso spiega che «se l’uomo è un giocattolo, la sua più alta aspirazione non potrà essere che quella di partecipare a un gioco».
E allora giochiamo. Cosa siano i videogiochi lo sanno tutti: trasposizione fantastica di realtà immaginarie dove un avatar affronta sfide spronato da rischi fantasmagorici che innescano reazioni adrenaliniche di paura e gioia. Ci possono far chiudere troppo a lungo in un’alienazione preoccupante dentro uno stanzino illuminato da una luce diafana, o farci conoscere nuovi compagni di vita e di avventure. Ci fanno soprattutto non rispondere alle domande dei genitori che interrompono sempre sul più bello. Ci stimolano. A volte troppo. Ci stanno disumanizzando. Ci stanno intrattenendo sempre più. Sono una rovina per i giovani, sono i nuovi social media, sono il futuro dell’entertainment e della società. Ci danno la sensazione, che la vita non ci dà, di poter controllare eventi e destino.
Giochiamo con le cifre. Soldi: nel 2018 il giro d’affari fu di 116,5 miliardi di euro, nel 2020 è arrivato a 133. Si stima che nel 2024 l’industria incasserà 224 miliardi di euro. Ci sono due miliardi di giocatori di video-game. Metà degli americani, 150 milioni, di cui il 60 per cento lo fanno ogni giorno. È il settore più redditizio dell’intrattenimento. Più di cinema, tv, serie, musica e libri. Più delle app: 30 per cento dei download Android e il 75 su AppStore. Un gamer tipico gioca minimo 12 ore la settimana. In America, 34 milioni di persone giocano 22 ore la settimana. Con i lockdown tutto questo è aumentato. Così come la dipendenza.
Qui è in gioco la nostra mente. Secondo l’Oms, l’Internet Gaming Disorder è «una malattia diagnosticabile in psichiatria in cui il gioco ha la precedenza su altri interessi e attività quotidiane e crea escalation nonostante conseguenze negative». Molti psicologi dubitano l’IGD esista indipendentemente da altre patologie, ma il dare precedenza ai videogiochi su ogni altra attività colpisce il 9 per cento dei gamers. Per l’American Psychological Association la definizione dell’IGD è troppo vaga: i problemi di umore e stato d’animo precedono gli eccessi del gaming, non viceversa. Siamo a un panico moralista da luddisti? Brutte abitudini o malattia mentale? Il 60 per cento dei video-giocatori ha problemi di sonno, il 40 salta qualche pasto, il 20 salta qualche doccia. Perché?
È un gioco di nervi. Il neuroimaging rivela che i videogame innescano il rilascio di dopamina nel circuito della ricompensa e che la dopamina non si comporta come dovrebbe nel cervello dei gamers compulsivi, dove si sviluppa prima del solito la tolleranza che porta all’assuefazione e alla richiesta di più stimoli. Più dura la dipendenza, più aumenta la tolleranza per la sostanza, più forte è il desiderio di averne e più difficile è fermare la dipendenza senza ricadute. Stesso meccanismo del gioco d’azzardo. Secondo un’analisi di 27 ricerche, fatta dalla psicologa Daria J. Kuss della Nottingham Trent University, ciò danneggia la memoria e riduce le capacità decisionali. Ne risulta indebolita la capacità di regolare le emozioni, inibito il funzionamento della corteccia prefrontale e interrotta l’attività elettrochimica nei circuiti di ricompensa. Pigrizia, inettitudine nei rapporti sociali, violenza.
I programmatori giocano con la nostra testa. Non è un segreto che i videogiochi siano studiati per generare dipendenza. Da decenni l’industria assolda scienziati che applicano tecniche psicologiche come il reinforcement intermittente studiato per non farti mollare mai il gioco. Dal 2014 al 2017 i ventenni americani hanno lavorato 1,8 ore in meno la settimana a causa dei videogiochi. Si va verso la società dell’otium? La prima nazione a capire il problema è stata la Corea del Sud, capitale degli e-sport, dove dal 2011 ai gamers sotto i 16 anni è proibito giocare tra mezzanotte e le 6 del mattino. In Cina, la dipendenza da video-games si cura con l’elettroshock e con punizioni corporali che hanno ucciso un adolescente. In America, nei costosi centri di riabilitazione ti imbottiscono dell’anti-depressivo Buprion, lo stesso dei fumatori accaniti. La società Game Quitters ha 75 mila soci in 95 Paesi: sono quelli usciti dalla dipendenza che amplifica la solitudine e nutre la malattia mentale. E, negli Usa, un gamer su otto soffre di dipendenza: tutti ragazzi tra i 18 e i 22 anni.
Qui è in gioco il nostro futuro. Che non è sempre come sembra. Da spazi solitari focalizzati, i videogame stanno diventando consistentemente più social. L’industria si sta accorgendo dei rischi per la psiche e sta spingendo verso la partecipazione. Ecco perché sentite urlare il ragazzo, la sera, al piano di sotto. Si sta divertendo con gli amici, collegati anche loro con cuffie e microfono nelle loro stanzette da qualche altra parte nel mondo.
I giochi che al momento sono più popolari sono studiati per l’esperienza sociale. Si spara, certo, ma si danno sempre più incentivi per un comportamento più civile dei social, studiati per farvi litigare. Ad esempio, Anthem spinge al lavoro di squadra per armarsi meglio e dividere il bottino. Division 2 incoraggia gli avatar a danzare assieme, proprio come Fortnite, ormai più una community che un game, di cui si dice che sarà il prossimo Facebook, o meglio, il rivale di Instagram. Questa la nuova frontiera: la sfida ai social media, in viaggio per il metaverso, illimitato mondo virtuale dove gli avatar partecipano a esperienze interattive multimediali come concerti e film. La ricetta è la stessa: distrazione + comunicazione. Perché nelle chat si parla di strategia, ma anche di vita normale. Twitter con i razzi e meno troll. Sulle prime si gioca perché si è amici, poi si resta amici perché si è giocato a video-games. Il gaming sembra una fuga dalla comunità, ma punta a divenire sempre più una comunità. Un parco-giochi del contemporaneo dove ci si diverte di più assieme. Ricordando cosa ci insegnò Nietzsche: «Maturità dell’uomo è ritrovare la serietà che si metteva nel gioco da bambini».