La Stampa, 24 ottobre 2021
Siena, Trieste e il capitalismo all’italiana
La rottura delle trattative tra il ministero del Tesoro e Unicredit per il salvataggio del Montepaschi è una pessima notizia per il Paese, per la sua immagine, per la salute della sua economia. È uno smacco per la vicenda in sé: il dissesto della banca senese è un bubbone che ci portiamo dietro da troppi anni, un grumo di scandali, di inchieste giudiziarie, di sperperi, persino di suicidi, che disonora la finanza italiana e soprattutto costa una barca di soldi per lo Stato e per il privato. La prova è che dal 2009 ad oggi, tra aumenti di capitale sul mercato e interventi della mano pubblica, per salvare Mps abbiamo speso qualcosa come 30 miliardi. Sette in più della manovra di bilancio appena annunciata dal governo Draghi.
Ma è uno smacco anche in senso più lato, per l’intero Sistema-Paese. Testimonia la crisi di un capitalismo italiano che ormai mostra la corda. I frutti avvelenati delle ex PpSs li vediamo in questi giorni: il tramonto inglorioso di Alitalia, con le hostess in piazza spogliate di stipendio e dignità, e la lenta agonia dell’Ilva di Taranto, con gli operai costretti alla scelta drammatica tra lavoro e salute. Continuiamo giustamente a inorgoglirci, perché siamo “la seconda manifattura d’Europa” dopo la Germania. Ma sul mercato mondiale, ormai, un grande Paese non può più competere cullandosi solo nel “piccolo è bello” e nelle eccellenze del Quarto Capitalismo che ci hanno salvato tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio dei Duemila.
Oggi di grande c’è rimasto assai poco. Nella finanza, insieme ai due pivot bancari Intesa e poi Unicredit (che dovrebbe ingrandirsi proprio caricandosi di Mps) ci sono le Assicurazioni Generali. Nell’industria, insieme alle public utilities Eni ed Enel, c’è il gruppo Exor (che ha in portafoglio anche gli asset editoriali di Gedi e che tra Fca, Ferrari, lusso, sport, agricoltura, ha attività italiane pari al 40-50 per cento del giro d’affari totale). Per il resto, quello che un tempo si chiamava il “Salotto Buono” ha chiuso i battenti da un pezzo. Negli anni d’oro Mediobanca era il crocevia delle grandi famiglie e dei signori del credito, che governavano, orientavano e proteggevano gli assetti dell’economia e della finanza con il collaudato meccanismo delle partecipazioni incrociate e delle scatole cinesi. Enrico Cuccia, allora, era davvero il custode dei Poteri Forti. E chi oggi continua a evocarli a sproposito non sa o non ricorda cos’era il “capitalismo di relazione” di quegli anni.
In questo momento Mediobanca è una banca d’affari quasi normale, come ce ne sono tante in Eurolandia e nel mondo. Il “quasi” deriva dal fatto che attinge la sua forza soprattutto da un’unica partecipazione, che conserva gelosamente nella sua cassaforte: le Generali, appunto, cioè la “magnifica preda” che in mezzo secolo molti hanno inseguito e nessuno ha mai conquistato. Ma oggi anche Generali sembra un colosso dai piedi d’argilla. Bloccato da uno scontro tra l’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel (che possiede il 17,25 per cento, dopo aver “affittato” un 4 per cento di titoli per pesare di più in consiglio) e gli azionisti privati della compagnia Del Vecchio e Caltagirone (che insieme alla Fondazione Crt detengono il 13,31 per cento). Il primo sospetta che i secondi vogliano far fuori l’attuale ceo del Leone Alato, il francese Philippe Donnet, per piazzare i loro manager e piegare la società ai loro interessi. I secondi sospettano che il primo, facendo muro su Donnet, al quale rimproverano una gestione troppo statica e poco redditizia rispetto alle enormi potenzialità del gruppo, punti a estrometterli dall’azionariato. E magari prima o poi a fare da testa di ponte per i francesi di Axa, da anni ingolositi dall’ipotesi di mangiarsi la più ghiotta compagnia d’Italia e la terza d’Europa.
Il risultato è un Vietnam ormai quasi quotidiano, dove i duellanti si fronteggiano in cda e si preparano all’assemblea del 29 aprile 2022: la “madre di tutte le battaglie”, che Nagel affronterà puntando alla riconferma di Donnet e i pattisti Del Vecchio e Caltagirone combatteranno per sfiduciarlo. Qui non si tratta di fare il tifo per l’uno o per gli altri. Si tratta di prendere atto che così rischia di deperire uno dei più formidabili gioielli di famiglia che ci sono rimasti. Il gruppo Generali vale 70 miliardi di premi, occupa 65 mila dipendenti nel mondo, gestisce un volume di risparmi da 600 miliardi. E se è vero che tra il 2016 e il 2019 ha garantito un ritorno complessivo per gli azionisti in aumento del 117 per cento (performance del titolo più dividendi) è anche vero che sul fronte del risparmio gestito, dei nuovi servizi e dell’innovazione tecnologica, avrebbe ancora molto filo da tessere. Non solo. Generali ha in pancia 75 miliardi di Btp del Tesoro. Insieme a Banca Intesa, che ne ha in pancia 85 miliardi, è il più cruciale acquirente del debito pubblico italiano. Al di là delle solite guerricciole autarchiche del Belpaese, qui un tema di “italianità” si pone, anche a prescindere dai rituali ma sterili allarmi del Copasir (dove la scorsa settimana, proprio a proposito del caso Generali e del rischio di ingresso dei capitali stranieri, è stato convocato il presidente “sovranista” della Consob, Paolo Savona).
Qui c’è una responsabilità della politica, benché in questo momento abbia altro a cui pensare. Da profondo conoscitore della micro e della macroeconomia, il presidente del Consiglio prima o poi farebbe bene a buttare un occhio anche su questi dossier. L’Italia ha bisogno di una politica industriale, tanto più adesso che si tratta di ricostruire un Sistema-Paese grazie ai 209 miliardi del Pnrr. Ma qui c’è soprattutto una responsabilità delle imprese, che invece non dovrebbero pensare ad altro che a crescere. L’ha ricordato il governatore della Banca d’Italia, alla Giornata mondiale del Risparmio: la crescita viaggia al 6 per cento, ma se manca il salto di qualità decisivo dell’apparato industriale possiamo tutt’al più riassestarci ai livelli pre-pandemici. E questo non possiamo permettercelo. Negli anni che hanno preceduto il Covid il tessuto produttivo del Paese aveva fatto solo modesti miglioramenti. “Dopo il crollo di poco meno del 30 per cento registrato tra il 2007 e il 2013 – ricorda Ignazio Visco – nel 2019 gli investimenti fissi lordi erano di circa il 20 per cento inferiori ai livelli del 2007: in rapporto al Pil erano di 4 punti più bassi della media dell’area dell’euro”.
La debolezza degli investimenti ha frenato l’ammodernamento tecnologico e infrastrutturale, ha ridotto i margini per la crescita dei salari, dei redditi e dei consumi privati. E ha ostacolato la discesa del peso del debito pubblico sul Pil. Servono imprese più grandi, più forti, più solide sul piano patrimoniale. E più pronte a mettersi in gioco, anche attraverso la quotazione in Borsa. Non è un caso se in Italia il rapporto tra capitalizzazione e Prodotto è inferiore al 25 per cento, contro il 100 per cento in Francia, il 50 per cento in Germania, il 40 per cento in Spagna.
Farà bene a ricordarselo anche il leader di Confindustria, Carlo Bonomi: rimettere mano a Quota 100 e Reddito di cittadinanza è fondamentale, perché con un debito al 160 per cento del Pil non dobbiamo più sprecare un solo euro su misure corporative o tutele assistenziali. Ma adesso, se davvero vogliamo scommettere su un nuovo Patto Sociale come ai tempi del governo Ciampi, ognuno deve fare la sua parte. L’innovazione e la modernizzazione del Paese non passano solo attraverso i “grants” o i “loans” generosamente concessi dall’Unione europea non più matrigna. I compiti a casa, stavolta, toccano a tutti. Non solo ai partiti e ai sindacati.