La Stampa, 24 ottobre 2021
La parabola di Erdogan, il grande dittatore
Adesso che anche i vertici dell’Europa parlano di «deriva autoritaria» e «intimidazioni», le parole di Mario Draghi su «Erdogan dittatore» appaiono sotto un’altra luce. Lo scorso 9 aprile le affermazioni del premier italiano avevano innescato una crisi diplomatica, con il presidente turco che aveva replicato qualche giorno dopo e definito le frasi «maleducate». Una reazione tutto sommato contenuta, anche perché le relazioni fra i due Paesi, soprattutto economiche, restano molto importanti. La deriva autoritaria è però continuata e adesso è tutta l’Europa a esserne investita, con il caso di Osman Kavala, che ha pure la cittadinanza francese, al centro dello scontro. Kavala è il volto e il simbolo di una repressione del dissenso che porta la Turchia sempre più vicina all’Asia centrale, e lontana da Bruxelles. La parabola della Turchia è quella di Recep Tayyip Erdogan. Premier eletto con un enorme consenso popolare all’inizio degli Anni Duemila, modernizzatore dell’economia, artefice dell’apertura ai mercati mondiale e di un boom che ha trasformato un Paese povero, ancora agricolo, in una potenza a medio reddito, il «nuovo Sultano» si è aggrappato al potere e non vuole mollarlo. Ha imposto due riforme costituzionali, passate per un soffio ai referendum, e si è conferito poteri da presidente-sovrano.
Per sbarazzarsi degli avversari ha usato tutti i metodi. Ha sfruttato l’ex alleato islamista Fetullah Gulen per infiltrare l’esercito e poi purgarlo dei generali ostili con processi pretestuosi. Poi si è liberato dello stesso Gulen, fuggito negli Stati Uniti, ma ha dovuto affrontare il colpo di coda del fallito golpe del 15 luglio 2016. Lì è cominciata la vera svolta autoritaria. È sfuggito in elicottero per soli 15 minuti ai golpisti che avevano il compito di eliminarlo nella sua casa sul mare a Bodrum. Ed è partita una vendetta implacabile. Dal 2016 almeno 107 mila persone, secondo un rapporto Onu, sono state espulse dal settore pubblico, 50 mila arrestate, decine di migliaia ancora in attesa di processo. Le forze armate, la magistratura, università, scuole, media indipendenti hanno subito colpi di maglio terrificanti. Secondo un rapporto del partito di opposizione repubblicano, il Chp, 33 mila insegnanti e 5 mila professori universitari hanno perso il posto con l’accusa di far parte della rete gulenista. I principali gruppi editoriali sono acquistati da imprenditori vicini alla presidenza. La Platform for Independent Journalism denuncia che 150 giornalisti sono ancora in carcere, sulle centinaia di arrestati.
L’omologazione ai voleri del presidente è continuata con l’imposizione di rettori a lui vicini nelle università. La rivolta all’Università del Bosforo, lo scorso febbraio, è solo un esempio. La «visione» di Erdogan è un misto di nazionalismo, non per niente il suo principale alleato politico è il partito Mhp, quello dei «lupi grigi», di islamismo che si rifà in parte ai Fratelli musulmani, e neo-ottomanesimo, l’ambizione di fare di nuovo della Turchia un grande impero fra Asia e Mediterraneo. Il leader turco oscilla da una posizione all’altra, a seconda delle convenienze. A luglio ha annunciato di colpo il ritiro dalla Convenzione di Istanbul sulla difesa delle donne, firmata proprio nella sua città dieci anni fa. Un modo per recuperare consensi nell’Anatolia profonda, conservatrice, toccata dalla crisi economica. Ai nazionalisti concede invece campagne aggressive contro i curdi, sia in patria che all’estero. Dopo la rottura della tregua nel 2015 ha scatenato una «riconquista» delle città turche nel Sud-Est. L’Onu ha denunciato che fra il luglio 2015 e il dicembre 2016 sono state investiti 30 centri urbani, con mezzo di milione di persone sfollate e distruzioni spaventose, 1786 edifici demoliti nella sola città di Nusaybin.
Persino le millenarie, stupende mura romane di Diyarbakir sono state in parte abbattute. Ma la politica della terra bruciata contro i curdi è andata oltre le frontiere. Fra il 2016 e l’ottobre del 2019, l’esercito turco ha lanciato tre offensive in Siria per sradicare i guerriglieri delle Ypg, protagonisti fra l’altro della lotta all’Isis a Kobane e Raqqa. Nel cantone di Afrin, denunciano Ong locali, un terzo della popolazione curda è dovuta scappare, mentre sono stati trasferiti decine di migliaia di siriani arabi. Nel distretto di Tall Abyad e Ras al-Ayn i miliziani jihadisti hanno commesso crimini atroci, come l’uccisione dell’attivista Hevrin Khalaf. Gli stessi miliziani usati contro i curdi sono stati spostati in Libia, un altro schiaffo all’Europa. Autocrate, o dittatore, con Erdogan bisogna comunque fare i conti.