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 2021  ottobre 24 Domenica calendario

Biografia di Francesco Bianconi raccontata da lui stesso

A 48 anni il cantautore Francesco Bianconi, fondatore dei Baustelle, è diventato solista, scrittore e curioso di case e delle anime che le abitano. Questa intervista comincia con un micro racconto. «Un mio caro amico ha vissuto per anni con la compagna in una piccola casa di ringhiera a Milano. Lì hanno concepito un figlio, lì lo hanno visto crescere, lì sono stati felici. Dopo averne trovata una più grande, nel momento in cui stava per chiudere la porta di quella vecchia ha dato un ultimo sguardo in salotto e ha visto aleggiarvi una sorta di palla bianca, evanescente. Il mio amico non crede in Dio né agli spiriti ma mi ha detto una frase rivelatrice: non so che cosa fosse quella palla che galleggiava in mezzo alla stanza, ma sono certo fosse buona».

Lei vede le case come soggetti dotati di una vita propria?
«Mi hanno sempre affascinato perché intravedo in esse un significato ambivalente. Le case sono contraddizioni e in quanto tali, come ogni incarnazione di opposti, mi attraggono».
Che cosa intende per contraddizioni?
«Le case sono contraddizioni perché sono un modo dell’uomo di interrompere il flusso selvaggio del mondo, uno stratagemma edilizio per porzionare, delimitare il caos.
Una forma di controllo sull’incontrollabile. Un modo di rendere finito l’infinito, attraverso la costruzione di un recinto, uno spazio conoscibile dentro ciò che naturalmente è nascosto, o tendente all’ignoto».
Ma ogni casa rappresenta anche la costruzione di un mondo a parte.
«Direi meglio: un piccolo mondo.
Come spiega Emanuele Coccia in
Filosofia della casa , le case non sono mai pura architettura, non sono mai soltanto mura, soffitto e pavimenti; le case sono fatte degli oggetti che gli uomini vi accumulano e sono fatte dei valori e degli investimenti emotivi che le persone applicano a questi oggetti, nella speranza di creare un proprio simulacro del mondo felice. La casa è il posto dove gli uomini scommettono circa la propria felicità. Sono artefatti psichici, eventi morali prima che architettonici. Per questo mi affascinano: possono contenere anime e modelli di vita, oppure, quando la scommessa con la felicità si perde, terrificanti fantasmi».
Qual è stata la sua prima casa?
«Il primo ricordo è la visione del soffitto della camera dei miei genitori, nella casa in cui sono cresciuto. Un soffitto bianco attraversato da una trave di legno scuro. Sdraiato sul lettone dei miei, guardavo i disegni dei nodi nel legno e vi scorgevo grovigli animali e vegetali mostruosi. Ogni volta i miei occhi formavano quadri che facevano paura e davano allo stesso tempo conforto. Sapevo che ero al sicuro. Sapevo che quei mostri erano immaginari, e che se anche così non fosse stato, almeno dentro a quella camera ogni male sarebbe stato sconfitto».
Durante l’infanzia aveva una sua casa segreta?
«Non ho mai costruito una casa sull’albero, ahimè, ma ho avuto lo stesso un’infanzia felice. La racconto anche nel mio ultimo romanzo, Atlante delle case maledette . Dove parlo di un bambino felice, timido ma felice, spensierato inventore di storie di animali e soldatini dentro una casa nella casa, cioè una stanza dei giochi all’interno della casa di famiglia in cui ho passato interminabili e meravigliosi pomeriggi di invenzione di storie insieme ai miei amici del cuore Marco e Michele. Era in uno spazio chiuso che riuscivo a viaggiare lontano, soltanto da lì partivo per il Polo, l’Africa Nera o Mompracem».
E gli incubi dove li tiene nascosti?
«Sono ossessionato dalle case rappresentate al cinema perché sono un appassionato di film horror, thriller e gialli. Credo che dipenda dal fatto che sono per natura un pavido, e quindi l’orrore al cinema, o nella letteratura, mi serve un po’ da allenamento per combattere la mia lotta contro l’orrore quotidiano».
Ha una sua classifica delle case maledette?
«Dario Argento è un maestro nel rendere le architetture parte integrante e attiva della narrazione.
Penso all’appartamento in cui avviene l’omicidio della medium in Profondo Rosso , a quel suo corridoio coi quadri e lo specchio rivelatore, ma anche Villa Scott nello stesso film, o l’Art Deco spettrale dell’accademia di danza in Suspiria . Villa Scott sono andato più volte a visitarla, perché ho passato un periodo della mia vita in cui mi trovavo spesso a Torino per lavoro.
Mi terrorizzano molto anche gli ambienti del film La casa dalle finestre che ridono , di Pupi Avati. Le case di Comacchio, le piccole chiese padane di campagna. Ma soprattutto c’è un luogo, in quel film incredibile, una specie di spoglia soffitta, mi pare, in cui il protagonista scopre un registratore con un nastro contenente le incisioni di voci deliranti. Ecco, è pazzesco, ma fin da ragazzino, molto prima di vedere quel film, un mio incubo ricorrente era sognare di entrare in una casa di campagna, grande, accogliente, salire all’ultimo piano e trovarlo sorprendentemente svuotato da ogni tipo di mobilio. All’interno di questo salone deserto, sul pavimento, trovavo un registratore a nastro.
Schiacciavo play e dagli altoparlanti arrivava una voce che bisbigliava parole incomprensibili. Poteva essere una lingua straniera, oppure un discorso registrato al contrario, rallentato, deformato: un demone audio. Mi svegliavo, urlando, in preda al panico».
E nei sogni belli come sono le sue case?
«Una volta ho sognato di arrivare al termine di un viaggio in macchina in una casa meravigliosa, con la mia compagna. Avevamo viaggiato per mesi e sentivamo che quello era il posto ideale per fermarsi, forse per sempre. Era una dimora sconosciuta che sentivamo familiare. Aveva una vetrata molto grande e una vista panoramica sulle montagne. Altre volte sogno alberghi, con porte misteriose che danno su altri mondi: suk nordafricani, corsie di ospedali, il palco del Teatro Ariston a Sanremo».
Lei lavora in casa. È stato un vantaggio durante il lockdown?
«Sono stato fortunato. Il mio studio è un appartamento in cui ho radunato tutti gli strumenti e dove tutto è collegato e pronto per cantare, suonare, registrare. È ormai una tana, un luogo sacro. Mi ha aiutato molto durante la pandemia. Riuscivo a lavorare e a concentrarmi senza farmi prendere dall’ansia. Ci sono stanze sentimentalmente più importanti in casa mia, la camera da letto e la cucina, per esempio, o la camera di mia figlia di otto anni, ma per quel che riguarda la parte creativa, il luogo in cui posso permettermi di perdere il controllo in pace, è il mio appartamento-studio».
Si definirebbe una persona stanziale o migrante?
«Sono una persona assolutamente stanziale costretta a fare un mestiere migrante. Viaggiare mi mette sempre ansia. Anche se devo prendere il treno e andare da Milano a Bologna.
Odio fare i bagagli, preparare le valige. Non mi muoverei mai».
Esiste la casa perfetta?
«La mia adesso si trova in una città. Qualche anno fa sognavo case di campagna. Adesso credo di avere bisogno della città. Sono tendenzialmente un solitario e ho bisogno forse di controbilanciare la solitudine con la certezza che da qualche parte intorno a me, a portata di mano, possa trovare gente assembrata in bar, cinema, teatri, club, musei, piazze, supermercati.
Sono in un periodo in cui ad esempio Milano, la città in cui vivo, mi sembra bellissima».
Da bambino come disegnava le case?
«Bianche, in un prato verde, il cielo azzurro, il sole che splende e un bell’albero fiorito accanto. Poi, all’ultimo anno di scuola materna, le maestre mandarono a chiamare mia madre perché erano un po’ preoccupate dal fatto che avevo cominciato a disegnare dettagliate scene di crocifissione: Gesù in croce al centro, e due centurioni ai suoi fianchi».