la Repubblica, 24 ottobre 2021
Unicredit-Mps il governo dice basta
La trattativa tra il Tesoro e Unicredit per la compravendita del Montepaschi è saltata. Erano giorni che tirava aria brutta tra le controparti, affaticate da un negoziato partito nel luglio 2020, formalizzato in esclusiva un anno dopo e logorato da due mesi di richieste lontane di almeno 2 miliardi di euro.
Venerdì ci sarebbero stati gli ultimi confronti, infruttuosi, tra il direttore generale del Mef, Alessandro Rivera, e il numero uno della banca, Andrea Orcel. Tutto è ufficioso e ancora mancano comunicazioni. Tuttavia, secondo accreditate voci il compratore riluttante, pur avendo ridotto qualche richiesta, continuerebbe a volere circa 7 miliardi di dote (più 2,2 miliardi di benefici fiscali) per prendere la parte migliore di Mps, ma il Tesoro non vorrebbe sborsarne più di 5, per liberarsi della banca di cui ha il 64% dopo averla salvata nel 2017 con 5,4 miliardi.
Ieri pomeriggio il bubbone ha iniziato a deflagrare, con indiscrezioni sulle agenzie di stampa e poi sulle chat di protagonisti e consulenti (Credit Suisse, Bofa e Mediobanca sono le banche advisor). «Non ci sono le condizioni per proseguire nella trattativa: le richieste di Unicredit sono troppo punitive per i contribuenti», sostengono fonti romane, piuttosto vicine ai palazzi di via XX Settembre, e anche contrariate perché «non sono rispettate le condizioni fissate dall’accordo del 29 luglio» (linee guida che però non indicavano gli esborsi). «No comment», ha replicato Unicredit, dove il capoazienda viene descritto come un manager deluso che sta per buttare la spugna, per aver trovato una banca senese peggiore di quel che ricordava. La domenica passerà tra ultimi tentativi di comporre le due parti, ma servirebbero mezzi miracoli, perché i nodi da sciogliere, o tagliare, sono due e grandi. Uno è la valutazione dei crediti Mps, parte magna degli 80 miliardi di attivi in bilancio.
Unicredit sarebbe disposta a rilevare circa 60 miliardi, e in base ai propri modelli interni avrebbe espresso una valorizzazione negativa per 2 miliardi dei crediti, laddove Mps è positiva per 6 miliardi. Criteri diversi, che creano una prima differenza miliardaria. L’altro nodo è l’esodo di lavoratori Mps: 2.700 (su 20 mila totali) erano già previsti in uscita nel piano in solitaria dell’ad Guido Bastianini, le nozze con Unicredit li farebbero salire a circa 7 mila. Per giunta, essendo stata la forza lavoro Mps già abbondantemente “scremata” negli anni, pare che tra gli esodati ci siano molti giovani, da accompagnare al fondo prepensionamenti settennale con tre anni di stipendio pagato, così da far salire il conto (pubblico) dei tagli ad almeno 3 miliardi. Poi c’è il resto: rischi legali e penali contrattuali sono altre voci a nove zeri per un conto totale che il governo faticherebbe a presentare alla politica – dove peraltro Lega, M5s e Fdi sono già ostili alla vendita – e ai cittadini. Entro stasera, comunque, qualcosa andrà comunicato al mercato, che lunedì aprirà con verosimile ritorno delle turbolenze, in una possibile replica degli spaventi di fine 2015, o nel secondo semestre 2016.
La paura degli investitori è legata al fatto che Mps ha bisogno di capitale, avendo reso noto da un anno un deficit attorno ai 2 miliardi. Dopo gli stress test estivi, dove la banca è risultata peggiore d’Europa con un deficit “sotto sforzo” di 2,5 miliardi, pare che la Bce abbia alzato la richiesta a 3 miliardi. Il Tesoro aveva stanziato 1,6 miliardi: il denaro restante si può trovare in due modi, spiegano i banchieri all’opera. Uno, con un aumento sul mercato, dove lo Stato fa la parte del socio (64%): ma per il resto serve una dirigenza credibile, e una redditività che la banca non conosce più (anche se al 30 giugno c’erano utili per 202 milioni, e al 30 settembre sembra siano il doppio). L’altro, con una riedizione della “ricapitalizzazione precauzionale” scaturita dopo la bocciatura agli stress test 2016. Lo Stato potrebbe coprire tutto il fabbisogno da solo, ma le norme Ue prevedono l’azzeramento di azionisti e bond subordinati (ce n’è per 1,75 miliardi di euro, in mano ai fondi speculativi). La prima soluzione è la più difficile; la seconda, la più impopolare.