Corriere della Sera, 23 ottobre 2021
In morte di Bernard Haitink
Due anni fa, quando il direttore d’orchestra Bernard Haitink annunciò che si sarebbe preso un anno sabbatico dalla vita concertistica – modo elegante per fuggire la retorica della «ultima volta» —, si commentava che nel suo gesto scarno, nella stessa espressione del suo volto, si fosse sempre intravisto il dolore dell’effimero, cupezza di un’arte che intuisce il paradiso ma non lo può afferrare, se non per un attimo.
Ora che una morte serena lo ha colto a 92 anni nella sua casa di Londra, è bello pensare che, quel paradiso, Haitink lo ha afferrato. Paradiso laico, certo, perché se è vero che classe, carisma, personalità e tecnica si sono sempre imposte in modo da rendere fluido, chiaro, semplice, ogni brano che eseguiva – e con quel suono levigato che è stato un suo marchio di fabbrica – è ancor più vero che l’unicità del suo stile consisteva nel leggere la musica in un modo del tutto immanente alla musica stessa. Con lui, le note non erano strumenti per dire altre cose, non comunicavano pensieri a margine del loro apparire. Ogni spiritualità era dunque bandita.
In un mondo dove gli interpreti fanno a gara per imporre ciascuno il proprio ego, ciò che ha fatto di Haitink uno dei massimi direttori di sempre è la mera circostanza di aver servito solo la musica, mai il mito di sé stesso: «È uno strano mestiere muovere l’aria», diceva spesso. Ancor più negli ultimi 15 anni, quando un che di misterioso ha reso le sue prove irripetibile unità di misura per stile, eleganza, perfezione, sprezzatura.
Mozart, Beethoven, Schubert, Bruckner, Mahler gli autori su cui ha saputo dire parole particolarmente definitive. Le orchestre di Londra, Vienna, Berlino, Chicago e soprattutto Amsterdam, per non dire delle giovanili, sono quelle che se lo sono godute di più. Peccato abbia suonato raramente in Italia.