la Repubblica, 23 ottobre 2021
In Italia ci sono solo 148 statue di donne
A Milano ce ne sono soltanto due, a Torino nessuna, a Roma si contano sulle dita delle mani. In tutta Italia sono 148 – o poco più – le statue pubbliche dedicate alle donne, escludendo allegorie o figure di Maria. Tante sono quelle che l’associazione di storici dell’arte “Mi riconosci” è riuscita a mappare incrociando ricerche e segnalazioni, «un numero che si avvicina alla totalità di quelle esistenti», spiegano le curatrici. Parliamo di busti, monumenti, fontane installate sulle piazze (solo il 36%), nei giardini, agli incroci delle strade. Figure per lo più anonime e spesso lontane, anche nella rappresentazione, dalla realtà.
Per dare un’idea della proporzione, rispetto ai monumenti maschili che celebrano condottieri e statisti, scrittori e politici, caduti e musicisti, poeti e filosofi, basta entrare nella capitale e salire sopra al Pincio: il conto finisce 3 (Grazia Deledda, Santa Caterina da Siena e Vittoria Colonna) a 226. Tra tutti i gender gap, non ultimo quello toponomastico che conta solo 8-9 vie su 100 intitolate a donne, si aggiunge pure quello monumentale. Ma non è solo il numero a segnare la differenza.
Abbondano Madonne, Vittorie, Glorie, ma sono poche, anzi pochissime le donne realmente vissute o i personaggi letterari: c’è qualche Maria Montessori, Elena di Savoia, Anita Garibaldi, Cristina Trivulzio di Belgiojoso; mancano Elsa Morante o Rita Levi Montalcini, Nilde Iotti o Tina Anselmi. Quasi la metà di quelle realizzate sono invece figure anonime collettive: una carrellata di madri, mogli di, lavandaie, mondine, emigrate o pure partigiane, genericamente intese.
La maggior parte dedite a lavori di cura o di accoglienza, professioni di fatica, votate al sacrificio, allattanti con bambini in braccio, accanto ai mariti o in attesa del loro ritorno, mentre nessuno per ora ricorda impiegate o scienziate, nell’attesa della prossima statua di Margherita Hack che spunterà a Milano (dove le maschili sono 125).
«Lo spazio pubblico non può essere considerato neutro – spiega Ludovica Piazzi, storica dell’arte e promotrice dell’indagine per “Mi riconosci” – e a oggi è uno spazio androcentrico come conferma non solo l’assenza di donne ma anche l’enorme sproporzione tra autrici e autori dei monumenti censiti: tra le 120 opere di certa attribuzione solo il 5% è stato realizzato da donne, un altro 5% vede la collaborazione tra autori e autrici mentre il restante 90% è a firma maschile».
E maschile, secondo le curatrici, è pure lo sguardo. «Questo è il monumento della Vittoria, andavamo a vederlo tutti i giorni… e io me lo sognavo anche la notte», recitava Titta nell’ Amarcord di Federico Fellini in adorazione delle rotondità della statua ai Caduti in piazza Ferrari a Rimini. Come la spigolatrice di Sapri con i glutei definiti appena velati da un’impalpabile veste, bollata come scultura sessista, c’è la lavandaia di Bologna, interamente nuda, inginocchiata e immersa in una tinozza, simbolo di purificazione che negli anni ha però suscitato numerose polemiche, o quella di Massa, chiamata con sprezzo dell’opera “La puppona”, con la veste calata sotto al seno. O Rosalia Montmasson, unica donna della spedizione dei Mille, ritratta a Ribera (Agrigento) accanto al marito Francesco Crispi: in abito lui, in sottoveste, improbabile per l’epoca e ogni dettaglio fisico in evidenza, lei. E ancora, ad Acquapendente c’è una statua dedicata a due giornaliste assassinate, Ilaria Alpi e Maria Grazia Cutuli, ritratte una di fianco all’altra completamente nude. «Simbolo di onestà e purezza» nelle intenzioni dell’autore. Ma, sottolineano le curatrici del dossier, «in questo come in molti altri casi la figura femminile è stereotipata: le statue hanno atteggiamenti sensuali o sono connotate da dettagli leziosi che nulla c’entrano col loro ruolo, aspetti che vanno a sminuire i soggetti ritratti. Un conto è una figura allegorica, altro è un personaggio realmente esistito: c’è una sessualizzazione del corpo della donna che può risultare offensiva. La storia dell’arte è costellata di nudi, non si tratta di censurare, ma di dare dignità alle donne scelte per essere ricordate nello spazio pubblico».