la Repubblica, 23 ottobre 2021
La Grande Muraglia navale che assedia Taipei
Avete presente la Grande Muraglia? Oggi i cinesi ne stanno realizzando una versione navale: una muraglia di isole fortificate e di batterie missilistiche, per avere il controllo di tutto il mare fino a centinaia di chilometri dalla costa. Ci lavorano da quasi venti anni, cementificando atolli corallini dove costruiscono bunker, radar, moli e piste. Nonostante la visione imperiale di Pechino, questa barriera ha una vocazione difensiva: è il grande scudo che serve a proteggere i commerci vitali per la Repubblica popolare. Allo stesso tempo, però, la catena di caposaldi chiude in una morsa i Paesi confinanti – che non hanno i mezzi per opporsi alla potenza del Dragone – e soffoca completamente Taiwan.
Gli strateghi cinesi non contemplano oggi un conflitto contro gli Stati Uniti: prevedono che ci vorranno almeno altri dieci anni prima di potere competere militarmente con l’America. I cantieri sfornano ogni genere di navi e sottomarini, ma mancano ancora ufficiali esperti nella gestione di una marina oceanica. E solo da poco sono iniziati gli sforzi per creare corpi aerotrasportati e da sbarco, indispensabili per operazioni offensive su larga scala. Tutti i piani prioritari sono finalizzati a impedire che gli avversari possano entrare in quella fascia di mare, progettando sistemi bellici su misura per debellare la Us Navy, distruggendone le portaerei: dai missili ipersonici, che grazie all’altissima velocità sfuggono alle batterie delle navi, a quelli balistici con portata illimitata fino ai prototipi di “bombardieri orbitanti”. Quando queste armi saranno pronte, quando Pechino sarà in grado di vietare l’ingresso della flotta Usa nelle “sue” acque, allora tutte le capitali dell’Estremo Oriente non avranno alternative e dovranno inchinarsi. I cinesi infatti seguono ancora la massima di Sun Tzu: «La più grande vittoria è quella che si ottiene senza combattere».
L’Amministrazione Biden ha ben chiara questa manovra e cerca di contrastarla. Gli incrociatori statunitensi fanno rotta attraverso i limiti arbitrari alla navigazione posti dalla Cina. Il Pentagono sta rapidamente aggiornando tattiche e reparti per la nuova missione. Dopo venti anni di campagne contro i jihadisti nel deserto, i Marines tornano ad addestrarsi per le operazioni anfibie: ancora una volta, sono stati chiamati ad affrontare la muraglia di isole, come nelle battaglie di Iwo Jima e Okinawa. Washington deve soprattutto mobilitare gli alleati, cancellando l’ombra di sfiducia creata dalla fuga afghana, per convincerli che non verranno lasciati soli davanti alle pretese di Pechino. Ed ecco che Taiwan diventa il cardine di tutti gli equilibri, il luogo dove rischia di concretizzarsi “la trappola di Tucidide” ossia le dinamiche che dai tempi di Atene e Sparta spingono una potenza consolidata e una emergente sul sentiero di una guerra totale.
Il presidente Xi nelle ultime settimane ha intensificato la pressione su Taipei. Lo fa per motivi interni: il crescente nazionalismo aiuta a nascondere la frenata dell’economia. E lo fa con un calcolo militare accurato. Le massicce sortite di caccia e bombardieri sui confini taiwanesi servono a logorare le capacità di reazione. Tre giorni fa uno studio del think tank britannico Rusi ha analizzato queste missioni condotte da due aerei per volta e ripetute nel corso della stessa giornata, sottolineando come nel 2020 le forze armate taiwanesi abbiano speso un miliardo di dollari – il 9 per cento del loro budget – solo per i decolli degli intercettori che contrastano le provocazioni. Attualmente, dispongono solo di un centinaio di caccia combat ready – i Ching-Kuo di produzione nazionale e i Mirage 2000 francesi – risalenti agli anni Novanta: solamente lo scorso anno Washington ha permesso la vendita di nuovi F-16.
Pechino invece manda in volo centinaia di velivoli, senza preoccuparsi dei costi. E nei prossimi mesi potrebbe fare entrare in scena le sue squadriglie di droni, più difficili da avvistare: un’eventualità che rischia di alzare ulteriormente la tensione e aumentare il rischio di incidenti.
Finora gli Stati Uniti non hanno mai avuto un ruolo attivo nella difesa di Taiwan. Qualsiasi rischieramento sull’isola di aerei e truppe aprirebbe una crisi con Pechino. E sarebbe carico di incognite dal punto di vista militare, perché esporrebbe mezzi e soldati americani alla micidiale pioggia di missili cinesi. Il sostegno promesso all’alleato quindi potrà avvenire solo dal mare, tramite le portaerei. E fare leva sulla superiorità tecnologica che ancora vantano strumenti come gli F-35 e i sottomarini d’attacco nucleari. L’unica strada per esercitare una deterrenza, cercando di evitare un confronto diretto dagli esiti imprevedibili.