Il Messaggero, 23 ottobre 2021
Intervista a Carlo Verdone
Quando la realtà si mescola con la fiction. Arrivando all’Auditorium per l’anteprima della serie Vita da Carlo, evento sold out della 16ma Festa di Roma, Verdone viene accerchiato dai fan che lo costringono a una interminabile sessione di selfie. Pare di essere in uno dei dieci episodi dell’irresistibile serie Amazon Original, prodotta da Filmauro, che il 5 novembre sbarcherà su Prime Video. Prorotagonista è proprio Carlo (anche regista in coppia con Arnaldo Catinari) con la sua vita in parte vera, in parte inventata, a tratti surreale tra risate e tormenti: l’assenza di privacy, l’ambizione frustrata di dirigere un film drammatico «alla Murnau» (e il produttore terra-terra, interpretato da Stefano Ambrogi, gli fa: «Ma chi è, quello che gioca come mezzala? Annamo, tu devi fa’ ride’»), i rapporti con il collega e amico Max Tortora, i figli (Caterina De Angelis e Filippo Contri), l’amata ex moglie (Monica Guerritore), l’invadente fidanzato scaricato della figlia (Antonio Bannò), la farmacista di cui è innamorato (Anita Caprioli). E poi c’è la politica che assedia Carlo per convincerlo a fare il sindaco di Roma.
Glielo hanno mai chiesto nella realtà?
«Sì, qualche anno fa. Impugnavano i sondaggi che mi attribuivano un consenso del 70 per cento ma a me sono bastati pochi minuti per rifiutare. La politica appartiene a chi è preparato, io voglio fare il cinema».
E cosa pensa del neo-sindaco Roberto Gualtieri?
«Non lo conosco ma può fare bene se sceglierà una squadra forte, rapida, onesta, soprattutto capace di abbatere le barriere burocratiche che soffocano la città. Roma deve ripartire da manutenzione, trasporti, periferie, dignità estetica. Ci tengo, amo troppo la mia città».
Ci è voluto coraggio per raccontare sia pure in forma tragicomica le sue ossessioni, le sue paure, le sue fobie?
«Un po’ sì, ma io non ho nulla di terribile da nascondere. Mi sono preso i
n giro perché l’autoironia non mi manca».
Perché non riesce a dire di no a nessuno?
«Perché voglio bene a tutti: presentazione di libri, articoli, selfie, ospitate... ho libero solo il week end. Dovrei essere meno disponibile, ma non ce la faccio».
È vero che vorrebbe dirigere un film drammatico?
«No, questo l’ho inventato. Ma mi piacerebbe realizzare un film con giovani attori, magari scoperti da me, senza essere il protagonista».
Il prossimo film?
«Sarà corale, lo sto scrivendo. Man mano che passa il tempo ho sempre più bisogno di stare insieme agli altri».
Nel secondo episodio della serie, ad Alessandro Haber che si definisce emarginato in quanto ebreo, lei ribatte: «Ma se avete un’ottima comunicazione!». Una sfida al pensiero politicamente corretto?
«Ma no... Haber, mezzo ubriaco, pronuncia il monologo di Shylock in Il Mercante di Venezia. Precisato questo, non ne posso più del politically correct, una forma di terrore che, mentre scrivevamo il copione, ci ha bloccati a più riprese. Si potrà dire questo, qualcuno si arrabbierà se diciamo quest’altro? Non faremo più ridere nessuno».
Cosa consiglierebbe a un giovane aspirante regista?
«Di cercare amici con la sua stessa passione e fare volontariato sul set. Paolo Sorrentino cominciò così... oggi ci sono almeno cinque registi cresciuti da me».
Ha successo da 50 anni, di cosa è più orgoglioso?
«Di aver costruito una carriera seria amministrandomi nel modo migliore senza l’aiuto di un agente».
Ha un rimpianto?
«Non aver sfondato all’estero. Ma non è stata colpa mia. Quando nel 1987 Io e mia sorella vinse il Festival di Villerupt, i produttori Cecchi Gori si rifiutarono di cedere il film ai francesi. Stavano già pensando di vendere tutto alle televisioni... Anche Spike Lee e Alfonso Cuaròn mi hanno chiesto come mai non fossi famoso in America. È l’unico cruccio che, a 70 anni, posso dire di avere».