Il Messaggero, 23 ottobre 2021
Belle Greene, la donna che ha creato la prima e più grande biblioteca di manoscritti in America. Intervista a Ad Alexandra Lapierre
«Mi interessano tutte quelle persone straordinarie che in un modo o nell’altro hanno cambiato la storia dell’umanità. Mi fa rabbia che siano state dimenticate, come tante donne escluse per ragioni sociali. Nel caso delle pittrici, erano i mariti a firmare le loro opere». Alexandra Lapierre ci accoglie nella sua bella casa romana, con le pareti tappezzate di opere di Paul César Helleu, il pittore della Belle Époque. Il suo ritratto di Belle da Costa Greene, la protagonista del suo nuovo romanzo, campeggia sulla copertina dell’edizione italiana. «È una coincidenza – dice in perfetto italiano, con un vago accento francese – che io avessi questi ritratti da sempre, e che abbia poi deciso di occuparmi proprio di questa donna incredibile». Belle Greene sarà presentato il 26 ottobre, alle 18, a Palazzo Barberini, con la direttrice del museo Flaminia Gennari Santori.
Nello studio spiccano due ritratti di Baudelaire, e un altro di Théophile Gautier, i suoi numi tutelari. «Ho una vera passione per loro, così come per Tolstoj, Balzac». Siamo non lontano da Palazzo Spada, dove si trovano alcuni dei capolavori di una di quelle donne dimenticate, Artemisia Gentileschi, che lei stessa ha contribuito a far apprezzare e conoscere. «Quando parlai del mio progetto all’editore (Laffont, ndr) e lo informai che volevo partire per l’Italia e iniziare un lungo lavoro di ricerca d’archivio, era incredulo. Mi disse: Ma tu sei matta, ne venderemo tre copie. In Francia il Barocco non funziona e poi Gentileschi, come si pronuncia?» Come andò lo sappiamo: il romanzo Artemisia (1998), sulla grande artista osteggiata dal padre, Orazio Gentileschi, ebbe un successo straordinario.
Il suo libro ha fatto scuola. Melania Mazzucco ha compiuto la stessa operazione con la figlia di Tintoretto, Marietta.
«È un desiderio interiore, non saprei dire perché finisco per scegliere un personaggio piuttosto che un altro. A volte faccio ricerche per sei mesi su qualcuno e alla fine mi dico: sì, è molto interessante, ma non abbastanza per impegnare tre o quattro anni in ricerche all’estero. È così che ho imparato l’italiano, lo spagnolo, l’inglese».
E le altre donne straordinarie di cui ha scritto?
«Belle Greene ha creato la prima e più grande biblioteca di manoscritti in America, cambiando la storia di quel Paese. Un altro personaggio femminile, Isabel Barreto (protagonista de La regina dei mari, ndr) aveva avuto il compito di continuare il lavoro di Cristoforo Colombo e andare a cercare la Terra Incognita, l’Australia. Non la trovò, ma i suoi primati furono altri: nel 1592 era pressoché impossibile che una donna fosse posta al comando di un’armata spagnola. Ed Elizabeth Chudleigh (protagonista de La dissoluta) incarnava l’archetipo di Casanova al femminile. Una femme fatale del Settecento, che adorava gli uomini. Fuggì con tutte le collezioni del marito per diventare la migliore amica di Caterina II».
Cosa ha imparato da suo padre, Dominique Lapierre, il grande scrittore de La città della gioia, oggi novantenne?
«La curiosità. Una curiosità universale. L’India, Gerusalemme, l’America. In fondo, facciamo le stesse cose. Anche lui, come me, non è uno scrittore francese, ma un autore aperto al mondo. Rispetto a lui, io sono più portata per la Storia, faccio delle ricerche mostruose».
Torniamo alla protagonista del suo ultimo libro, Belle Greene. Cosa aveva di straordinario?
«Belle finse di essere una bianca, rischiando l’impiccagione. Un nero che si faceva passare per un bianco, a quel tempo (l’inizio del 900, ndr) commetteva un crimine. Ma era l’unico modo per avere accesso alla cultura, per viaggiare. Nessun’altra donna, e ancor meno una nera, poteva dire di essere arrivata al suo livello. Era la più pagata d’America. Non solo. Lei non era ricca grazie a un marito, come altre donne a quel tempo, anzi: non poteva sposarsi. Era chiara di pelle, ma rischiava di avere un figlio nero, di farsi scoprire. Belle riuscì ad avere una carriera internazionale, ad andare alle aste da Christie’s e Sotheby’s, a diventare la più potente donna del mondo. E tutto grazie a J.P. Morgan».
Come riuscì a non essere scoperta?
«Arriviamo al paradosso: lei era la più onesta nel suo campo ma, allo stesso tempo, tutta la sua vita era una bugia. Il nome era falso, le sue origini erano false. Non l’hanno smascherata soltanto perché nessuno poteva immaginare che il braccio destro di Morgan fosse una donna nera. Ma lei rischiò tantissimo, suo padre era il più grande attivista nero dell’epoca».
Continuò a rischiare anche dopo il ritorno del padre...
«Sì, e lui l’affronta dicendo che il vero successo sarebbe stato arrivare a quel livello come una nera. L’accusa, in pratica, è di fare il gioco dei bianchi. Il passing per noi è un concetto sconosciuto, ma così non è in America, dove tutti sanno di cosa si tratta: fingersi un altro».
Anche questo romanzo è frutto di meticolosa ricerca storica?
«Nel mio libro non ci sono personaggi né avvenimenti inventati, è tutto documentato. Volevo capire cosa volesse dire essere una donna di colore a New York. Ho passato molto tempo a Firenze perché tutte le lettere di Belle sono alla villa I Tatti, che fu la residenza dello storico dell’arte Bernard Berenson, di cui lei fu l’amante per quarant’anni. Le scrisse 628 lettere, la più lunga è di 28 pagine. Non si potevano scattare foto di alcun tipo, così ho dovuto copiare tutto a mano. Pian piano, mentre trascrivevo a matita, cominciavo a pensare come lei».