Il Messaggero, 23 ottobre 2021
Ritratto di Primo Carnera
La storia del nostro pugilato conosce molti campioni, ed ancora oggi i nomi di Nino Benvenuti e Duilio Loi suscitano, nei meno giovani, la dolce nostalgia di un’epoca d’oro. Ma nessuno può eguagliare la fama di Primo Carnera, di cui in questi giorni ricorre l’anniversario della nascita. Fu il primo, e l’unico italiano a conquistare il titolo di campione del mondo dei pesi massimi. Ebbe una carriera oscillante, ma estremamente lunga per uno sportivo. Conobbe una gloria straordinaria quanto effimera, e diventò un simbolo della forza unita alla mitezza e al buonumore.
IL PAESINO
Era nato il 26 Ottobre 1906 a Sequals, un isolato paesino del Friuli, dove la miseria veniva affrontata con l’emigrazione e la fame con l’alcol. I poveri contadini, a corto di cibo, surrogavano un’alimentazione carente con l’uso e l’abuso di grappa. Quest’ultima non era quel raffinato liquore denso di aromi conservati e protetti da preziosi contenitori che oggi sta conquistando il mondo. Era un corrosivo intruglio di residui che annebbiava la mente e intorpidiva il corpo. Fu probabilmente questa nutrizione scorretta che minò il fegato di Carnera condannandolo a una morte prematura. Nonostante ciò, il ragazzo crebbe con un fisico erculeo, emigrò in Francia e si guadagnò il pane esibendosi al circo. Fu notato dall’ex campione del mondo Paul Journée che lo convinse a dedicarsi al pugilato. Migliorò la sua economia e perfezionò la sua tecnica, A 22 anni debuttò a Parigi, con un vittorioso e folgorante knock out. Si aggiudicò altri 16 incontri, ne perdette due, e subì qualche squalifica. Era un buon picchiatore, non un buon incassatore. In prosieguo i suoi critici l’avrebbero definito un gigante dai piedi di argilla.
IL BALZO
Il grande balzo avvenne nel 1929 quando salpò per gli Stati Uniti, dove la boxe era un insieme di competizione, di affarismo e di mafia. Vinse 23 match consecutivi, e qualcuno parlò di arbitri corrotti e incontri truccati. Ma il suo allungo, il pugno massiccio, la sua altezza di due metri con 130 chili di muscoli erano reali. Tornò in Europa e vinse ancora. Rientrato in America mirò al titolo più alto. Il cursus honorum prevedeva un incontro con Ernie Shaaf, che poco prima era stato annichilito da Max Baer. Carnera mandò Shaaf al tappeto, e il poveretto morì poco dopo di emorragia cerebrale. Probabilmente era già malato, ma il nostro campione ne soffrì al punto da pensare al ritiro. Fu consolato dagli amici e dalla stessa madre dell’avversario defunto, e si preparò al grande evento. Così il 23 giugno 1933 al Madison Square Garden di New York, affrontò Jack Sharkey, detentore del titolo, lo strapazzò con vari montanti e al sesto round lo mandò definitivamente al tappeto. Il poverello di Sequals era diventato campione del mondo.
Era la prima volta che un italiano saliva su quel podio. L’America gli decretò un trionfo straordinario, e Mussolini lo accolse indicandolo come simbolo della forza e della virilità romana. In realtà dell’antico romano – com’è rappresentato nelle statue del Campidoglio – Carnera non aveva nulla: era di tratti grossolani, con una certa tendenza all’acromegalia, e la sue membra erano tanto possenti quanto disarmoniche.
L’ASTUZIA
Ma il Duce seppe interpretare e sfruttare l’orgoglio nazionale con astuzia e profitto. Carnera si esibì in camicia nera, e ovunque salutò con il braccio teso e il distintivo del regime. Oggi ironizziamo su queste cerimonie più o meno costruite, dimenticando che non solo i dittatori, ma anche democratici presidenti come Sandro Pertini hanno goduto di un supplemento di popolarità per altrui meriti sportivi, e che le ritualità sui ring e sui campi di calcio sono ricorrenti e bizzarre: è presumibile che i nostri nipoti un giorno sorrideranno sarcastici delle attuali genuflessioni dei calciatori politicamente corretti. Il nostro inguaribile ma indulgente scetticismo deriva proprio dalla volubilità delle opinioni e dalla volatilità delle mode.
Carnera non mantenne a lungo il titolo. L’anno dopo fu sconfitto da Max Baer, complice anche uno slogamento di caviglia. Ritentò la scalata, ottenne altri successi ma il 25 Giugno 1935 perdette ogni speranza davanti a Joe Louis, di otto anni più giovane. Ormai era appesantito, e inadeguato per uno sport che si stava raffinando in tecnica ed eleganza: anni dopo Cassius Clay avrebbe dimostrato che si può essere potenti come un leone ed agili come una gazzella. Louis lo mandò al tappeto, iniziando una parabola che l’avrebbe reso il primo supercampione della boxe.
IL LOTTATORE
Carnera allora passò al wrestling, la disciplina in cui aveva esordito: in effetti più che un pugile era un lottatore. In questo ring così diverso, dove la forza prevale sulla mobilità, riprese fiducia e notorietà, vincendo una serie di incontri e sfiorando il titolo mondiale. Continuò a battersi sino a cinquant’anni suonati, guadagnò – nonostante la cresta dei suoi procuratori – abbastanza per crearsi un’attività commerciale, ottenne la cittadinanza americana e mandò i figli a studiare nelle università più prestigiose.
Nel frattempo era passato al cinema. Furono parti di secondo o terzo grado, sempre connesse alla sua mole possente e al suo volto terrificante. Talvolta impersonò sé stesso, talaltra un invincibile titano. L’ultima pellicola, Ercole e la Regina di Lidia, che ricordiamo con la devozione dovuta a Sylva Koscina, lo vide, nei panni di Anteo, soccombere davanti a Ercole impersonato da Steve Reeves, un bellone culturista proclamato Mister America. Probabilmente nella vita reale Carnera lo avrebbe steso con un dito: nel film viene sollevato da Ercole che lo getta in mare come un sacco di patate. La sua carriera di attore comunque finì tra quelle onde. Per di più la sua salute peggiorava, e la cirrosi epatica lo stava logorando. Tornò a Sequals e qui morì il 29 Giugno 1967.
LA SIMPATIA
Noi lo ricordiamo con calda simpatia perché il titolo di gigante buono non era usurpato. Come il selfish giant di Oscar Wilde (nella parte finale) nutriva una commovente tenerezza verso i bambini, e con riserbo elargiva somme in carità. Era un buon cattolico, e il suo fascismo era, come per quasi tutti gli italiani dell’epoca, un’adesione temperata dalla necessità. Dopo la guerra rischiò un’esecuzione sommaria da parte dei crudeli partigiani filotitini, ma fu salvato dai più ragionevoli della Osoppo. Ricordare Carnera in camicia nera è tanto ridicolo quanto rievocare la lettera con cui Norberto Bobbio, per mantenere la cattedra universitaria asseverava al Duce la propria coscienza fascista vantando l’iscrizione al partito. Il suo nome non è inserito tra i maggiori pugili della storia. Ma, almeno in Italia, questo nome si è preso la rivincita, diventando addirittura un sostantivo: così come, inchinandoci davanti a un cervellone, diciamo «È un Einstein», quando siamo intimoriti davanti a un colosso esclamiamo: «È un Carnera!»