il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2021
Un documentario su Strehler
Si sente “un musicista mancato”; diventa il più grande regista di prosa del Novecento italiano. Propugna un “teatro umano”; è un genio disumano. Coltiva in quanto artista “un profondo senso della vita”; non esce mai di casa, neanche a cena. Ama la natura e gli animali; preferisce le piante finte dello scenografo: “Mi sono trovato in questo teatro, una sera, dentro a un giardino immaginario, quello del Gabbiano di Cechov, e mi sono sdraiato per terra, nel semibuio, non c’era nessuno, era finita la prova e guardavo in alto, questo teatro con questi alberi, e mi figuravo che questo fosse più bello in fondo che stare in un prato con gli alberi veri”. Essere Giorgio Strehler è un casino, un paradosso, un rovello, un’esplosione di arte e angoscia.
A cent’anni dalla nascita, un documentario rende onori e oneri al demiurgo della scena italiana: prodotto da Didi Gnocchi, in collaborazione con il Piccolo Teatro di Milano e con la regia di Simona Risi, Essere Giorgio Strehler è stato presentato in anteprima alla Festa del cinema di Roma e, dal 13 novembre, approderà su Sky Arte. Voce narrante è quella del regista stesso, riesumato da interviste, video e altri materiali d’archivio e accompagnato dagli interventi di amici e colleghi, critici e biografi, tra cui Andrea Jonasson, Ottavia Piccolo, Ezio Frigerio, Franca Squarciapino, Cristina Battocletti.
Agiografico quanto basta – manca, ad esempio, la spinosa parentesi della droga –, il doc si apre nella Trieste del 1921, da poco italiana, ma ancora profondamente mitteleuropea: “A tavola si parlavano quattro lingue”, chiosa il protagonista, figlio di una violinista e orfano precoce di padre, cresciuto dal nonno dalmata, fumantino e appassionato. L’idillio infantile – tra mare, musica e un dolcissimo porcospino domestico – dura poco: alla morte del nonno, la famiglia emigra, complice l’ascesa dei picchiatori fascisti, inclementi soprattutto con chi ha cognomi “stranieri”. A Milano, però Strehler incontra il suo primo e unico amore: il teatro. Una relazione che lo incastrerà tutta la vita, inseguendo i fantasmi di Goldoni, sfondando la porta di quello che diventerà il Piccolo Teatro (nel 1947), sbattendo la porta in polemica coi sessantottini, intristendosi per la crisi morale della città negli anni Novanta di Tangentopoli, profetizzando la sua morte mozartiana (nel 1997)…
Dal sangue e dalle macerie della sala di via Rovello, luogo di torture delle squadracce nere, Strehler con Paolo Grassi e Nina Vinchi fonda il primo Stabile italiano, “d’arte ma popolare, povero e poetico… Attraverso il teatro si sono dette le cose più alte sul destino dell’uomo. Si è parlato della bellezza dell’essere uomo, come dell’orrore di essere uomo… Se noi non siamo pronti umanamente a fare del teatro, faremo un teatro che non ha niente a che vedere con l’umano: sarà in fondo, un teatro del disumano”. Poi però Giorgio si dimentica di vivere, impastato com’è di contraddizioni e tristezza, passione e solitudine.
Fa teatro, il regista, per “servire Eschilo e Shakespeare, le grandi costellazioni che guidano il nostro commino. Noi abbiamo paura di fare teatro: bisogna essere pazzi per mettere ogni sera il proprio cuore in mano alla gente”. Eppure, quel cuore batte solo sulle assi del palco, nel tentativo di risintonizzarsi con la lanterna magica dell’infanzia. Strehler è “un bambino, prima che un intellettuale”, ma è un gioco solitario il suo: impossibile, a detta dei conoscenti, “essergli amici”.
E così Giorgio sta solo sul cuore della terra, trafitto da un raggio di sole finto, impegnato com’è a “difendersi da se stesso… Curati, vinci, lavora. Nasconditi”.