il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2021
Negli ultimi 6 mesi 34mila polacche hanno attraversato i confini per abortire
Le polacche che fuggono oltreconfine per abortire sono migliaia: negli ultimi sei mesi sono state almeno 34 mila, riferisce Aborcja bez granic (Aborto senza frontiere), associazione nata nel dicembre del 2019 dall’unione di sei Ong che si battono per i diritti fondamentali dei cittadini. Da ogni latitudine polacca le più benestanti vanno a ovest: Germania, Belgio, Spagna. Le meno abbienti a est: soprattutto verso Repubblica Ceca e Slovacchia. Chi decide di terminare la gravidanza dopo il secondo trimestre, ha invece una sola scelta: la Gran Bretagna, unico Stato dove si può praticare l’aborto entro le 24 settimane. Lo hanno già fatto almeno 460 polacche, riferisce ancora l’associazione, impegnata non solo a fornire pillole abortive, ma anche nella raccolta di fondi – finora quasi 100 mila euro –, necessari per pagare i viaggi delle ragazze.
Dalle campagne, zone rurali o dalle grandi città, le slave sono costrette a raggiungere reparti e cliniche straniere da quando i conservatori dell’ultracattolico Pis, partito Legge e giustizia, sono riusciti a rendere illegale l’interruzione di gravidanza nel Paese. L’esecutivo ora al Sejm (il Parlamento), ha compromesso lo stato sociale e annientato l’autonomia di giudici e magistratura: emessa rocambolescamente a ottobre dell’anno scorso, l’ultima sentenza del Tribunale costituzionale di Varsavia ha aggravato le già severissime restrizioni della norma. In Polonia adesso anche gli aborti di feti malformati costituiscono una violazione della legge, secondo cui si può non partorire solo in tre casi: se vittime di stupro, di incesto e se c’è rischio per la salute della madre, casi che, sapevano benissimo i togati, però costituiscono solo il 2% delle contingenze.
L’associazione però precisa anche che il numero reale delle donne che decidono di interrompere la gravidanza è molto più elevato. Secondo le cifre fornite da una struttura affiliata, Whw, acronimo inglese di “Donne che aiutano le donne”, da quando il divieto è entrato in vigore, ogni anno, dalle 80 mila alle 200 mila polacche hanno tentato di determinare il loro futuro senza assecondare una legge che le costringe solo al ruolo riproduttivo. A pagare più di tutte sono le donne emarginate e quelle che abitano in zone rurali, ma il picco che ha spaventato le attiviste è stato quello delle richieste di donne che sanno di essere gravide di feti malati che i dottori polacchi si rifiutano di dichiarare tali: “La severità delle anomalie è minimizzata dai medici, che a volte ritardano le diagnosi delle malformazioni di proposito per rendere più difficile l’aborto”, ha dichiarato la fondatrice dell’associazione Mara Clarke.
Private del diritto fondamentale garantito alle donne degli Stati democratici, le polacche, ha scritto due giorni fa Amnesty nel suo ultimo report, stanno affrontando “un danno incalcolabile”, mentre le circonda un ambiente “sempre più ostile e pericoloso”, quello che subisce ogni giorno, per esempio, Marta Lempart, fondatrice delle Strajk Kobiet (sciopero delle donne). L’attivista è stata numerose volte minacciata di morte per aver organizzato manifestazioni contro il divieto d’aborto e ha più di 80 cause aperte da quando è stata trascinata in tribunale da organizzazioni religiose e ultraconservatrici. La legge non è cambiata, ma non lo ha fatto nemmeno lei: le ragazze scese in piazza per le più grandi proteste che la Polonia ricordi dalla caduta del Muro di Berlino, promettono di tornare presto a marciare per le strade di Varsavia.