Il Sole 24 Ore, 23 ottobre 2021
Tutti pazzi per la musica
Quel volpone di Mark Zuckerberg mica dice cose a caso. Quando nell’estate del 2016 fu ricevuto a Palazzo Chigi dall’allora premier Matteo Renzi, lodò l’Italia a modo suo: «In Europa c’è Spotify, qui avete MusixMatch di Max Ciociola».
Cinque anni e una pandemia dopo, i fondi americani sembrano dargli ragione, se è vero che per l’app inventata dallo startupper bolognese di Puglia sono disposti a giocarsi una fiche milionaria. Ne ha fatta tanta di strada da quando nel 2010 è nata, la piattaforma dei testi delle canzoni che oggi serve un pubblico di 50 milioni di utenti attivi cui mette a disposizione qualcosa come 14 milioni di lyrics. Non è l’unica app che fa questo mestiere, ma evidentemente è la più sexy, in un particolarissimo momento storico che vede la musica godere di un inedito appeal nei confronti degli investitori.
Il 23 ottobre 2001, esattamente 20 anni fa, il patron di Apple Steve Jobs lanciava l’iPod promettendo alla discografia – un settore in ginocchio dopo la crisi di Napster – un eldorado di futuri ricavi. Vent’anni più tardi, la rivoluzione promessa da Jobs si è compiuta, non come l’aveva pensata Jobs (il download è stato soppiantato dallo streaming, iTunes da Apple Music) ma comunque con uno slancio capace di portare i ricavi del comparto discografico dal minimo storico del 2014 (14,3 miliardi di dollari) quasi a livelli pre crisi (21,6 miliardi nel 2020). I dati di Ifpi e Fimi ci danno il polso di un settore che si è rimesso a camminare, in particolare grazie allo streaming premium, e adesso piace ai mercati, perché è percepito come settore tech. Universal Music Group il mese scorso si è quotata ad Amsterdam realizzando una capitalizzazione da 45 miliardi. Il pacchetto azionario adesso è in mano alla media company cinese Tencent (20%), alle Bolloré Entities (18%), a Vivendi (10%) e al fondo Pershing Square (10%), mentre il restante 42% è flottante. Un anno fa si è quotata a Wall Street per 12,7 miliardi di dollari la Warner Music di Mr. Dazn Len Blavatnik. Tre anni fa, ancora a New York, toccò alla piattaforma di streaming per eccellenza Spotify: 29 miliardi di capitalizzazione il giorno del debutto, nove in più rispetto al valore del mercato discografico globale. E anche in queste due ultime operazioni c’è lo zampino di Tencent che oggi detiene l’1,6% di Warner e il 9% di Spotify. Media company e fondi ormai, quando si parla di musica, comprano di tutto: persino i songbook dei cantanti, com’è successo a Bob Dylan, Stevie Nicks e Neil Young che hanno ceduto il canzoniere a Umpg, Primary Waves e Hipgnosis. Insomma, c’è grande entusiasmo. L’unico rischio si chiama bolla. Perché il settore non può crescere per sempre. E, prima o poi, pure l’eldorado dello streaming premium si saturerà.