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 2021  ottobre 23 Sabato calendario

Consumi di pasta raddoppiati in 10 anni. Ora manca il grano


Il mondo ha sempre più fame di pasta ma l’Italia, primo produttore ed esportatore mondiale, rischia di restare a corto di materia prima per alimentare l’industria di prima trasformazione e pastifici.
Negli ultimi dieci anni i consumi globali di pasta sono raddoppiati a 17 milioni di tonnellate annue, come rivela un’indagine di Unione Italiana Food diffusa in vista del World Pasta Day che si celebra lunedì 25 ottobre. Nonostante il rallentamento delle esportazioni nella prima parte del 2021 dopo il record del 2020, l’Italia resta – ovviamente – il punto di riferimento mondiale per produzione (3,9 milioni di tonnellate), export (2,4 milioni di tonnellate) e consumi: ogni italiano ne mangia oltre 23 kg all’anno, staccando in questa speciale (e un po’ sorprendente) classifica Tunisia (17 kg), Venezuela, (15) e Grecia (12). Anche se la domanda si sta normalizzando dopo i picchi del 2020 favoriti dalle restrizioni dovute alla pandemia, secondo l’indagine di Unione Italiana Food nel 2021 i consumi interni dovrebbero assestarsi su valori in linea o superiori rispetto al 2019.
A segnare il passo nel 2021 è stato invece, come detto, l’export. Dopo anni di crescita ininterrotta che hanno portato il fatturato estero del settore a superare nel 2020 quota 2,3 miliardi, nei primi 7 mesi dell’anno le spedizioni sono calate di oltre il 10% in valore e del 18% nelle quantità, ma il confronto con i valori pre Covid dello stesso periodo del 2019 evidenzia comunque una crescita del 13%, a conferma di un assestamento in un quadro di generale crescita strutturale. Un piatto di pasta su quattro nel mondo è italiano e all’estero finisce ben oltre la metà (il 62%) della produzione nazionale. Principali clienti si confermano Germania, Regno Unito, Stati Uniti, Francia e Giappone, cinque paesi che assorbono da soli oltre metà dell’export, mentre i mercati in più rapida crescita sono Cina, Canada, Spagna e Arabia Saudita.
Un primato che i pastai italiani difendono investendo sull’innovazione: le 120 imprese del settore (che danno lavoro a oltre 10mila addetti e generano valore per circa 5,6 miliardi) investono in media il 10% del fatturato in ricerca e sviluppo per rendere gli impianti più sostenibili e intercettare nuove tendenze. Accanto alla pasta classica, che rappresenta il 90% del mercato con oltre 300 diversi formati, crescono le preferenze dei consumatori per l’integrale, il gluten free, quelle con farine alternative e legumi, fino all’ultima innovazione della pasta realizzata con la stampante 3D. Con una sensibilità sempre più spiccata per le confezioni 100% grano italiano, meno ricercate invece all’estero dove conta di più l’italianità del brand.
La vivacità del mercato globale è confermata anche dal riassetto in corso dei grandi pastifici. Entro fine anno è prevista la chiusura dell’acquisizione dello storico marchio francese Panzani da parte del fondo di private equity britannico Cvc Capital Partners dalla multinazionale alimentare spagnola Ebro Foods (proprietaria a sua volta del marchio Garofalo), per 550 milioni di euro. Proprio Ebro Foods ha ceduto nel 2020 le proprie attività in Canada di produzione e commercializzazione di pasta secca sotto il marchio “Catelli” per 100 milioni al gruppo Barilla, che a sua volta a inizio 2021 ha acquisito la maggioranza di Pasta Evangelists, premium brand inglese specializzato nelle vendite online di pasta fresca.
I problemi della filiera però sono a monte. Lo scenario dei mercati delle materie prime ricorda quello della “bolla” sperimentata dal settore nella primavera del 2008, con prezzi ai massimi e carenza di scorte per l’approvvigionamento di grano duro di cui l’industria di trasformazione italiana è carente per il 40% almeno del proprio fabbisogno. Dall’inizio della campagna di commercializzazione lo scorso luglio le quotazioni del frumento duro nazionale, che hanno ormai superato stabilmente la quota simbolica dei 500 euro per tonnellata, sono cresciute dell’80% raggiungendo i 540 euro, di oltre il 100% rispetto alle quotazioni del 2020 e del 135% rispetto alla media degli ultimi cinque anni. L’aumento dei prezzi del grano di importazione, che supera ormai i 600 euro a tonnellata, è stato ancora più evidente.
La corsa dei prezzi continua a pesare sulla bilancia cerealicola italiana, con il deficit in ulteriore peggioramento nonostante il consistente calo dei quantitativi importati. Nei primi sette mesi del 2021 le importazioni complessive sono diminuite di 913mila tonnellate (-7,3%, con 427mila tonnellate di grano duro in meno rispetto al 2020, pari al -23%) ma cresciute in valore – per effetto dei rincari – di 345,5 milioni di euro (+10%).
Le prospettive non sono incoraggianti: a fine campagna – secondo l’ultima stima dell’Usda – le scorte globali di grano, il dato più seguito dai mercati, scenderanno ai minimi da cinque anni, aumentando così il vuoto d’offerta (a cui si sommano le difficoltà logistiche) con i consumi previsti in ulteriore espansione e la produzione (rivista al ribasso anche per il crollo del 40% atteso in Canada) solo in marginale recupero sulla scorsa stagione.