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 2021  ottobre 23 Sabato calendario

Orsi & Tori


Giovedì 2 agosto 2012. È il giorno in cui è iniziato il declino del più duro oppositore di Mario Draghi e della politica annunciata otto giorni prima a Londra dal presidente della Bce con la famosa frase “Whatever it takes”. Quel giorno, nella riunione del Consiglio direttivo della Bce, Draghi propose la politica di “fare tutto quello che serve” per salvare l’euro e combattere la crisi nella quale si trovava l’Unione europea. Ci fu un solo voto contrario, quello Jens Weidmann. Fino a quel voto, il peso e quindi il potere del presidente della Bundesbank era enorme. E infatti quando Draghi, nella conferenza stampa che seguì come al solito la riunione del Direttivo della Bce di comprare senza limiti prefissati i titoli degli stati, delle banche e delle società europee, sarebbe stata valutata negativamente dagli investitori e dai gestori.

Mentre all’annuncio del voto contrario di Weidmann i mercati avevano appunto preso a scendere, quando aprì Wall Street successe esattamente il contrario. Esattamente come Draghi mi aveva anticipato. Non solo perché anche gli Usa concordavano con quella scelta, ma anche perché Draghi era il banchiere centrale nella storia della Bce con le più strette relazioni con le migliori élite degli Usa e il governo americano. Per alcune semplici ragioni: 1) ha studiato al Mit di Boston con il premio Nobel Franco Modigliani; 2) ha cominciato a fare il banchiere a Washington come Executive director della Banca Mondiale, dove il banchiere deve essere anche politico, visto le scelte politiche di finanziare questo o quel paese fra i più poveri; 3) da governatore della banca d’Italia, è stato scelto con il consenso decisivo degli Usa come presidente del Financial stability forum, quale prima forma di organismo globale per combattere la terribile crisi in atto.
Il paradosso (sarà una sorpresa non per pochi) è che Weidmann era arrivato alla presidenza della Bundesbank e quindi nel Direttivo Bce perché era un politico molto vicino ad Angela Merkel nella segreteria del partito Cristiano democratico, mentre il banchiere Draghi è diventato presidente del consiglio senza l’appoggio della politica ma solo per la sua competenza ed autorevolezza. Questo paradosso dovrebbe modificare la convinzione di molti e cioè che la Germania sia il paese del rigore, dove la politica rispetta i tecnici o tecnocrati, mentre l’Italia sarebbe occupata ovunque dalla politica.

Piuttosto, dopo l’ascesa di Draghi a capo del governo italiano, in un momento drammatico che egli sta facendo volgere al meglio con la sua competenza e autorevolezza, si conferma che è il mondo delle banche centrali che garantisce all’Italia i vertici delle istituzioni. È arcinoto che Luigi Einaudi, economista, fu eletto alla Costituente e subito dopo divenne governatore della Banca d’Italia, per entrare poi al governo come Vicepresidente del consiglio, rimanendo governatore, senza tuttavia ritornare mai alla guida della banca centrale, essendo stato eletto presidente della Repubblica. E poi il governatore Carlo Azeglio Ciampi, presidente del Consiglio dal 1993 al 94, quindi ministro del tesoro infine Presidente della Repubblica. E ancora il caso di Lamberto Dini, direttore generale di Bankitalia, che diventò prima ministro del tesoro, poi primo ministro, presidente del Consiglio Europeo e più volte ministro degli Esteri.
Per fortuna che più che in altri paesi, come la Germania, ai vertici del paese Italia sono arrivati e arrivano, nei momenti critici, uomini che prima hanno dimostrato di avere talento, preparazione e autorevolezza nel mondo delle banche centrali.

Sarà anche la sorte di Weidmann? Non è probabile, perché pur avendo avuto e probabilmente avendo la stima della Merkel a livello di componente della più importante istituzione europea qual è la Bce, si è comportato tutt’altro che bene. Tuttavia, gli va dato atto della correttezza di dimettersi quando ancora non è stato formato il governo post Merkel, che sarà a guida della Spd socialista. L’ex-avversario di Draghi in Bce ha deciso di lasciare la presidenza della Bundesbank uscendo quindi anche dal direttivo della Bce. “Per la Bundesbank inizia un nuovo ciclo”, ha dichiarato in maniera asciutta.
Chi comprende che la crisi economica seguita al Covid non è ancora finita e anzi è a un punto critico, conta che al posto di Weidmann sia eletto un uomo o una donna con idee affini a quelle di Draghi. La favorita appare Isabel Schnabel, che è nel board della Bce. Ma sono pronti a scattare anche falchi come Joerg Kukies, attuale sottosegretario nel governo Merkel (a conferma che la Bundesbank è in Germania una poltrona per politici), oppure il numero due della Bundesbank, Claudia Buch e l’ex-consigliere della Merkel Lars Feld, il più falco di tutti.

Quindi è un rischio pensare che la Germania attraverso la Bundesbank e i rappresentanti in Bce possa cambiare significativamente linea, passando a una più vicina a quella attuata da Draghi, che ha salvato l’euro e l’economia della Ue. La tosta presidente francese della Bce, Christine Lagarde, è sulla linea di Draghi e infatti l’acquisto di titoli per immettere liquidità nel sistema continua, ma l’opposizione tedesca si fa sentire da tempo. Non si può dimenticare che la Corte costituzionale tedesca è arrivata a sentenziare che l’acquisto dei titoli da parte della Bce dovrebbe cessare. E poi ci sono le continue richieste tedesche di riattivare il Fiscal compact, che fissa il rapporto debito/ pil al 60%, quando anche paesi come la Francia sono arrivati a superare il 100%. Per non parlare dell’Italia. E infatti nei giorni scorsi anche rappresentanti autorevoli e alleati dei tedeschi nella Commissione europea hanno sostenuto che il 60% deve rimanere in vigore. Insomma, mentre Draghi ha salvato l’euro e l’Europa da una crisi micidiale con una politica di alta liquidità, il rigorismo tedesco non si è acquietato e non si acquieterà nonostante l’uscita di Weidmann e nonostante la sostanziale moderazione della presidente Ursula Von der Leyen. Il commissario italiano all’economia, Paolo Gentiloni predica un rigore moderato, ma ha pochi alleati nella commissione. La decisione del Next generation plan, che per l’Italia è il ricco Pnrr, è l’eccezione e per questo l’Italia non può perdere questa grande occasione. Occorre che anche il più bieco oppositore di Draghi lo capisca: a essere in gioco non è il futuro di Draghi, che anche uscendo dal governo domani passerebbe alla storia, ma il futuro dell’Italia. Una specie di Ultimo treno per Yuma, anche se qui non c’è nessun bandito da portare in prigione.

Così come è inutile contestare l’affermazione che il green pass voluto dal governo (è perfino superfluo ripeterlo fra persone per bene, democratiche e razionali) sia una limitazione della libertà. È come la patente, il passaporto, la carta d’identità: senza non si può guidare, non si può viaggiare all’estero, non si può vivere nello stesso paese in cui si risiede. E altrettanto privo di significato è continuare a ripetere, come si sente dire, che il green pass non esiste in nessun altro paese, neppure nella organizzata Germania. Il green pass oltre al valore pratico di contenere o ridurre vicino a zero il contagio, è una straordinaria occasione per mettere ordine nella testa degli italiani. Allora, secondo la logica contorta di chi predica e va in piazza, anche dover pagare il biglietto per salire in treno potremmo considerarlo una limitazione della libertà perché, appunto, non siamo liberi di viaggiare in treno se non si paga il biglietto.
Puntare su questa linea, su questa protesta, lo dimostrano le elezioni comunali, non paga. Ed è ridicolo evocare la limitazione della privacy: limita la privacy il vigile che chiede la patente? Il mondo è sempre più complesso, e senza regole (umane) e rispetto degli altri, la drammatica e fantastica accelerazione del processo tecnologico si potrà trasformare anche in fortissimo peggioramento delle condizioni di vita.

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Perfino un teista del digitale come Mark Zuckerberg, fondatore/padrone di Facebook, sembra aver capito almeno qualcosa dei pericoli che senza regole il fortissimo progresso tecnologico genera. Anche lui sembra aver capito che il meccanismo infernale di Facebook ne fa il primo generatore di fake news che inquinano il mondo democratico; e quindi sta correndo ai ripari per evitare di trovarsi nel giro di pochi anni a un rifiuto o a una proibizione del suo social network dove vengono depositate le informazioni meno vere della storia dell’umanità.
Come prima mossa, Zuckerberg ha deciso di cambiare nome alla sua società, non più quello del social network inventato, ma il nome di una holding che comprenda le altre attività, da Instagram a WhatsApp, Oculus e gli altri. Sarà interessante conoscere il nome della holding, perché a imitazione di Google che ha ribattezzato la holding Alphabet (alfabeto, come inizio di tutto per comunicare), il nome potrebbe essere espressione del suo programma.

Alcuni fatti, come la decisione di proibire l’account su Instagram ai minori di 13 anni, testimoniano che l’inventore di Facebook ha capito come, inevitabilmente, le autorità di tutto il mondo si sono svegliate dal torpore in cui le aveva fatte precipitare il fascino dell’innovazione tecnologica. Zuckerberg ha capito che la nomina di Lina Khan alla presidenza della Federal trade commission avrebbe presto limitato il suo potere. Lo ha capito ancor di più quando si è rivolto alla Corte di giustizia perché venisse annullata la nomina della Khan e la Corte ha respinto il suo ricorso.
Anche le posizioni assunte verso gli Ott dall’Unione europea con la vicepresidente della Commissione, Margrethe Vestager, stanno facendo capire a coloro che sono divenuti padroni del mondo potendo gestire globalmente le informazioni, appunto per il 65% false, che il vento è cambiato. E a chiarire le idee agli stati e ai governi è stata la Cina, ridimensionando il potere di Alibaba e Tencent e dettando le regole di uso dei device per i giovani e dell’uso limitato per i videogiochi, giustamente, anche se fortemente, definiti pari all’oppio.

Chi aveva capito prima di tutti che il pericolo per le democrazie ma anche per le oligarchie era diventato altissimo, è stato il presidente dell’Armenia, Armen Sarkissian, che come ho già scritto, ma repetita juvant, disse con semplicità a Barbara Carfagna della Rai: “Oggi un politico con i social viene giudicato, osannato o distrutto dopo solo due secondi dal suo atto o dalla sua dichiarazione. Per questo la democrazia del futuro non sarà più quella che abbiamo conosciuto fin dai tempi dei greci”.
Meno male che anche gli altri capi di governo e di stato si sono svegliati. Naturalmente cambia anche la democrazia delle banche e della finanza, e se il Nein di Weidmann di quel 2 agosto del 2012 fosse avvenuto oggi, anche contro il potente presidente della Bundesbank la reazione sarebbe potuta essere istantanea, con conseguenze difficili da immaginare. Meno male che Draghi c’era, celiando sullo slogan per Silvio Berlusconi.