La Stampa, 23 ottobre 2021
La cultura delle armi negli Usa
«Mio padre Henry Fonda con il suo miglior amico, James Stewart, finito di girare sul set, venivano a casa a giocare a poker, posavano sul tavolo i revolver luccicanti e distribuivano le carte…» amava ricordare l’attrice Jane Fonda, parlando dell’infanzia tra i miti di Hollywood. Armati al cinema, entrambi volontari decorati durante la II guerra mondiale, Fonda in Marina e Stewart in Aviazione, i due grandi attori sembrano eroi perfetti di quella che il critico Richard Hofstadter, nel seminale saggio del 1970 «America as a gun culture», definisce «La cultura americana delle armi», diffusa fin dalla Rivoluzione del XVIII secolo. Gli europei, di fronte alle cronache violente Usa, ultima la morte della direttrice della fotografia Halyna Hutchins e il ferimento del regista Joel Souza, colpiti dall’attore Alec Baldwin durante le riprese del western «Rust», al Bonanza Creek Ranch di Santa Fe, New Mexico, stentano a cogliere il legame ancestrale tra cittadinanza e armi da fuoco. Una tradizione che si è lasciata dietro, nel 2019, 38.355 vittime, 23.941 suicidi, 14.414 omicidi, 1352 tra incidenti e guerre, per salire ad oltre 41.000 morti nel 2020 della pandemia Covid (fonte Cdc).
Con 120,5 armi per ogni 100 abitanti (statistica dovuta ai proprietari di arsenali con dozzine di bocche da fuoco, perfino mitra militari, che coprono anche la popolazione che non possiede fucili o pistole) gli Usa guidano la classifica mondiale nel ramo, seguiti a distanza da Yemen in guerra civile, Serbia, Montenegro.
La «cultura delle armi» divide il Paese, con il 40% delle case a possedere almeno una pistola. Se chiedete il perché, il 60% vi parla di protezione personale, il 40% di caccia, ma la metà del Paese è persuasa che «non si tratti di un grave problema», malgrado le stragi a Las Vegas, 2017, Orlando, 2016, Virginia Tech 2007 e Sandy Hook, 2012, che hanno lasciato a terra 195 persone e quattro killer (fonte Pew).
Le divisioni della «cultura della guerra» son radicali, le città la temono, la campagna la adotta, gli afroamericani all’80% la considerano vera emergenza, tra i bianchi, soprattutto maschi e al Sud, la paura scende e il 28% minimizza, «C’è poco o nulla da temere» (Pew). Il 53%, la mezza America metropolitana e liberal che ha eletto il presidente Joe Biden, sogna leggi più severe sul porto d’armi, come quelle in vigore nella democratica New York City, ma chi viaggia Upstate New York, a Nord, trova subito contee, repubblicane, armate fino ai denti. Le contraddizioni abbondano, perfino il solo senatore socialista Usa, l’ex candidato alle primarie democratiche per la Casa Bianca Bernie Sanders, icona di sinistra, è cautissimo sul tema perché eletto in Vermont, dove tanti vanno a caccia ed è permesso portare armi nascoste nelle fondine.
La National Rifle Association, la lobby delle armi, fino agli anni Sessanta discuteva di regole e sicurezza, poi, sotto la guida dell’attore Charlton Heston, il popolare Mosè del kolossal «I Dieci Comandamenti» girato nel 1956, ha plasmato la subcultura del maschio, bianco, religioso, conservatore che, imbracciando il suo Winchester, si oppone alla deriva multiculturale, femminista, progressista, multietnica del paese fondato da George Washington.
Al centro della crociata NRA, la difesa del II Emendamento alla Costituzione, che garantisce sì il diritto di portar armi, ma nell’ambito di «una ben regolata milizia», non acquistando online mitra Uzi, M 16 o AK 47. Il padre della patria Washington, infatti, sapeva benissimo che i miliziani, contadini con il fucile che affrontavano le truppe professionali del Re britannico durante la guerra di Indipendenza, non erano affidabili, «In nessun caso ho visto i miliziani pronti al mestiere della guerra. Vanno bene per la guerriglia nei boschi, ma sono incapaci di sostenere un attacco serio». Malgrado il parere del generale e futuro presidente Washington, però, l’epopea orale, dalla Rivoluzione al western di Baldwin, preferisce tramandare come i moschetti catenaccio degli inglesi, i Brown Bess della battaglia di Waterloo, furono superati dai fucili Pennsylvania dei ribelli. Costruiti da armaioli emigrati dalla Germania, i Pennsylvania aveva la canna rigata, si caricavano con facilità e possedevano a distanza precisione micidiale che terrorizzava i realisti, convincendo Washington a far vestire tutti i soldati da cacciatore, spacciandoli per tiratori scelti.
Mezzo secolo or sono, Hofstadter già denunciava: «Il senatore Joseph Tydings del Maryland, nell’estate del 1968, si batteva per efficaci leggi sul controllo delle armi, lamentando che “È tragico come nell’intera civiltà occidentale, gli Stati Uniti siano il solo Paese con una folle legislazione sulle armi”. La realtà è peggiore: Occidente o no, gli Stati Uniti sono il solo Paese moderno, urbano, industriale che mantenga la cultura delle armi…Perché le armi dominano una cultura dove meno del 4% dei lavoratori vive di agricoltura, dove da oltre un secolo pochi vivono alla frontiera?».
La conclusione del critico, dopo gli assassini di M. L. King e Robert Kennedy, era amara e presaga: «Una nazione che non si dota di un sistema di controllo delle armi malgrado i traumi degli anni Sessanta… non lo farà nel prossimo futuro. Viene da chiedersi quale tragica catastrofe ci persuaderà alla fine, quali cose terribili debbano ancora accadere». Dunque, i titoli che animano l’infosfera su Baldwin e il Bonanza Creek Ranch, purtroppo, non saranno gli ultimi.