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 2021  ottobre 23 Sabato calendario

Le ragioni di Alessandro Barbero

Non si placa la polemica innescata dalle parole dello storico Alessandro Barbero, docente all’Università del Piemonte Orientale, il quale giovedì scorso ha dichiarato a La Stampa che le donne ottengono meno successo «perché mancano di quella aggressività, spavalderia e sicurezza di sè che aiutano ad affermarsi». La comunità femminile si è ribellata: immediate le repliche, cori di dissenso sui social, ma le opinioni al riguardo sono contrastanti.





Paola Mastrocola
Devo confessare che lì per lì ho stentato a capire i termini della questione: a me sembrava che le parole di Barbero fossero addirittura un complimento alle donne, nonché una forma elevata di comprensione e gentilezza nei loro confronti. Ma evidentemente io sono tarda e sprovveduta. Mi sembra che dire di una persona che non è «aggressiva» né «spavalda» sia rilevarne due virtù non da poco, soprattutto in questi tempi di energumeni e rozzi tra cui ci troviamo ahimè a vivere. Invece la sua intervista ha scatenato l’inferno.
Proviamo a interrogarci su tale inferno, che si regge sul solito meccanismo: si estrapolano frasi o parole considerate «sbagliate» e s’ignora sia il discorso intorno ad esse sia il valore e la biografia di chi le ha pronunciate. È come se avessimo una specie di algoritmo mentale dentro di noi, che seleziona, prende la mira e bombarda. Che viviamo ormai sotto una cappa ideologica mi è chiaro da anni, ma non pensavo fino a questo punto. Temo che sempre di più ci si dovrà autocensurare preventivamente, o assoldare qualcuno che individui in noi e nelle nostre incaute parole quel quid di disallineato e scorretto e gentilmente ce lo cancelli (lo fanno già in America con i sensitivity readers!). Tapparsi la bocca, o rientrare nel coro chiedendo scusa. Spero che Barbero non chieda scusa.
Ma veniamo alla questione. È vero che le donne fanno meno carriera degli uomini. Ma perché sempre e soltanto invocare i secoli di sottomissione e la prepotenza aggressiva del maschio? Perché questo determinismo imprigionante? Perché negare alle donne una loro autonoma, ed eversiva, volontà? Voglio dire, può darsi che ad alcune donne non importi far carriera, che sia una loro scelta quella di riservarsi una vita più libera e ariosa.
Non è detto che far carriera sia la cosa migliore del mondo. Conosco un sacco di gente che, proprio facendo carriera, si è rovinata la vita: ha meno tempo, vive soffocata da impegni, in luoghi dove non vorrebbe vivere e con gente che non vorrebbe frequentare. Oso dire che il discorso potrebbe valere anche per gli uomini, imprigionati da secoli nello stereotipo del maschio in carriera, incatenati al lavoro per dieci ore al giorno festivi compresi. Conosco un sacco di uomini che non ne possono più, e rivendicherebbero per sé anche un tempo casalingo, più libero e arioso.
Siamo sicuri che si debba sempre e a priori ammirare chi fa carriera? Potremmo ammirare anche chi non la fa. Potrebbe sembrarci addirittura più nobile non far carriera, segno di un saggio distacco dal potere, dal commercio, dal denaro. Il potere è sempre iniquo. Rileggiamoci l’ultimo atto dell’Adelchi, per esempio, dove Adelchi morente dice al padre: «Godi che re non sei», e dispiega la sua visione morale del mondo, secondo la quale detenere il potere equivale a far soffrire, compiere ingiustizie e mettersi dalla parte degli oppressori: «Non resta che far torto o patirlo». Le donne potrebbero aprire una terza via: non far torto e non patirlo.
Lancerei un’ipotesi ardita: e se la parte più nobile e gentile dell’umanità fosse proprio l’universo femminile, e proprio perché non è ossessionato dalla carriera? E se le donne, in questo, al di là delle discriminazioni che effettivamente subiscono, fossero più avanti di tutti nel prospettare una vita ideale?
Barbero dice anche che noi donne siamo più insicure. Non lo so, può darsi. Ma, anche qui, siamo sicuri che l’insicurezza sia sempre un demerito? E perché solo femminile? Mi limiterò a citare Montale: «Ah l’uomo che se ne va sicuro, agli altri ed a se stesso amico, e l’ombra sua non cura che la canicola stampa sopra uno scalcinato muro!». Versi sublimi, emblema di un atteggiamento verso la vita che ritengo auspicabile per tutti, donne uomini e asterischi vari: essere consapevoli del complesso e indistricabile viluppo di bene e di male che contraddistingue l’essere umano in generale. Abbiamo luci e ombre. E vedere solo le luci, o solo le ombre, non mi pare una buona idea.


***


Piergiorgio Odifreddi
Il professor Barbero, da storico, avrebbe dovuto sapere che rischiava reazioni pavloviane a parlare del ruolo sociale delle donne. Se non fosse stato un esperto di Medioevo antico, ma di femminismo americano moderno, avrebbe saputo che da decenni quest’ultimo si lamenta che persino la parola history sia maschilista (a causa del prefisso his, che significa «suo», al maschile), e propone di passare a una femminista herstory! In italiano, oltre che in latino e in greco, «storia» è invece femminile, ma nessun uomo se n’è mai lamentato, proponendo di passare a «storio»... Chi pensa che sia tutto uno scherzo, cerchi su Wikipedia inglese herstory e vedrà.
Più seriamente, mi sembra che questa volta Barbero non abbia detto nulla di strano, e soprattutto non è colpa sua se le cose stanno come ha detto. In realtà, la cosa ha poco a che fare con la storia, e più con la biologia: già Spencer aveva infatti enunciato l’essenza del darwinismo nel motto «a sopravvivere sono i più adatti, non i migliori». Così vanno le cose nella natura, ma purtroppo così vanno anche nelle società: chiunque può riportare esempi di idioti che ricoprono posti di responsabilità, dal Parlamento alle bocciofile, a scapito e danno dei tanti migliori di loro che sono vessati. E la cosa non ha nulla a che fare con il genere, visto che tra i migliori vessati ci sono sia uomini che donne.
Addirittura, la famosa legge di Peter stabilisce che, anche nel migliore dei mondi possibili, «la carriera fa salire la gente fino al proprio livello di incompetenza», perché chi fa bene al proprio livello viene appunto promosso, fino a quando cessa di esserlo perché smette di fare bene nel livello in cui è arrivato. Nel campo dei libri, invece, vale un principio analogo: due terzi della popolazione italiana non legge nemmeno un libro all’anno, ma il rimanente terzo legge i libri che finiscono in classifica, e vista la qualità di questi ultimi, non è affatto detto che alla fine siano meglio coloro che leggono i libri che prevalgono, invece di quelli che non leggono.
Dunque, semmai le donne dovrebbero essere felici di non essere oggi rappresentate in maniera egualitaria ai livelli di comando, perché questo depone a favore della loro intelligenza e del loro valore. E invece se ne lamentano, perché a parole combattono il maschilismo che le discrimina, ma in pratica accettano il sistema che è basato su quello stesso maschilismo, invece di cercare di cambiarlo: anche se poi, di nuovo, a prevalere non sono i sistemi migliori, come sognano gli ingenui, ma i più adatti.
L’alternativa non è oziosa: mentre il femminismo francese, esemplificato da Il secondo sesso di Simone de Beauvoir, istiga appunto le donne a elaborare un modello di vita e di società basato su principi femminili, il femminismo americano (quello della herstory), esemplificato da La mistica della femminilità di Betty Friedan, si limita a rivendicare per le donne un posto paritario nella società attuale, basata su principi maschili.
Le donne che vogliono la parità nelle carriere nel mondo di oggi, si limitano dunque a voler sostituire le incompetenze maschili con quelle femminili, invece di spingersi a rifiutare l’incompetenza tout court, e proporre di sostituirle con la competenza, di qualunque genere essa sia. Le quote rosa non cambiano il sistema: si limitano a rivendicare un diritto alla complicità nel suo sfruttamento. Ci vorrebbe semmai un mondo rosa, basato sulle qualità che il professor Barbero ha ingenuamente elencato come pregi, e che le femministe all’americana perversamente considerano dei difetti, in un terribile qui pro quo. Ed è inutile illudersi che la competenza femminile possa fare la differenza, se non si cambia il gioco. Ad esempio, Margaret Thatcher e Angela Merkel hanno raggiunto il vertice in politica, e avevano una marcia in più rispetto alla maggioranza dei politici maschi: la prima era una dottorata in chimica, e la seconda in fisica. Ma l’essere donne non ha portato le due «ladies di ferro» a interpretare la politica in maniera diversa da quella maschile. Il vero problema non è se il sistema sia guidato da donne o uomini, ma chi possa e voglia essere in grado di cambiarlo.