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 2021  ottobre 22 Venerdì calendario

Lunga e bella intervista a Paolo Sorrentino

Con quel minimo di eleganza consona a un giornale serio, tocca fare un po’ di gossip. Già, perché È stata la mano di Dio, Leone d’argento a Venezia e avviato a ulteriori trionfi (nelle sale dal 24 novembre, su Netflix dal 15 dicembre) è il film più personale di Paolo Sorrentino: autobiografia, romanzo di formazione di un adolescente napoletano degli anni Ottanta innamorato di Maradona e di una zia bonissima e folle (Luisa Ranieri), che passa dalla Cantata dei giorni pari di Eduardo alla tragedia. Irrompe il fato con la mano de Dios, non quella del gol “irregolare” di Maradona agli inglesi (Mundial 1986), ma quella di una trasferta del Napoli, la prima che il protagonista ha il permesso di seguire appresso al suo idolo, disertando il consueto weekend in montagna con mamma e papà: nella casetta appena comprata di Roccaraso, una fuga di ossido di carbonio uccide i genitori.
Finisce un mondo corale, affettuoso e ridanciano e, oscurato da un dolore infinito, il futuro non dà segni di sé. Ma poi il cinema, come vaga e casuale aspirazione, accende un baluginio in fondo al buio e Fabietto Schisa, l’alter ego del giovane Sorrentino (interpretato con empatia da Filippo Scotti), trova la sua strada. Quindi, fra tante asperità, bisogna anche fare domande petulanti del tipo: la zia bella che si spoglia sempre è vera? E quella che mangia la mozzarella, dice maleparole a tutti e si tiene la pelliccia anche d’estate per far vedere che ce l’ha? Ma l’anziana baronessa del piano di sopra che giudica tutto “una cafonata” l’ha davvero svezzato sessualmente?
La necessaria eleganza di cui sopra obbliga a formulare la questione in altri termini. Ovvero: come si fa un film autobiografico? Cosa si falsifica e cosa si lascia com’era? Cosa si censura? Sorrentino risponde nella sua casa di piazza Vittorio, prima di un’interminabile tournée Londra Lione Parigi Washington San Francisco Los Angeles New York, tra festival e diplomazie per gli Oscar. «Ho censurato il protrarsi del dolore per non fare un film devastante. Il dolore di quegli anni è molto più articolato e gravoso. Poi, ovviamente, ho censurato le cose che potevano dare troppo fastidio alle persone. E ho fatto violenza ai tempi mescolando e concentrando gli eventi. Di materiale ne avevo tantissimo: nella mia famiglia come in tutte, credo, c’era molta memoria orale: i fatti narrati appartengono ai tanti racconti familiari, mio padre e mia madre li hanno ripetuti milioni di volte e io ho buona memoria dell’infanzia e dell’adolescenza. Poi ho scelto elementi che servissero alla trama e speravo avessero valenza cinematografica, perché la grande trappola di certe storie è che possono avere valore per te, ma non interessano lo spettatore».
Fra le interviste che ha rilasciato negli anni non ce n’è una un minimo profonda in cui non riaffiori la morte dei suoi genitori.  A dimostrazione che i suoi fatti personali pervadono ogni film su cui la intervistano.«Succede a tutti i registi».
Era per dire che sa benissimo cosa funziona e cosa no.
«Ma questo film è proprio diverso dagli altri, non c’è una cosa in comune».
Nel suo cinema, la perdita, lo smarrimento, la solitudine, la malinconia, il vuoto, l’immanenza della tragedia, in un modo o nell’altro c’erano già. Questo non sembra un film di rottura, ma di arrivo.
«Speriamo che riparta anch’io. Non mi pongo tante domande sui film che ho girato. Li ho fatti sempre in un certo modo, ma poi mi sono stancato, mi sono reso conto che, con dei trucchetti, delle variazioni sul tema, riproducevo le stesse cose alla maniera di me stesso. Ero diventato abitudinario. Con le due serie tv sul papa è come aver fatto altri dieci film, in termini di durata: a un certo punto le immagini finiscono, le consumi tutte e cominci a ripeterle. Stavolta sono completamente diverse. Questo film è molto più semplice, senza sentimenti articolati o complessi. È un film sulla gioia e sul dolore».
Nella prima parte, bordeggia spudoratamente, e spericolatamente, la macchietta, tirando fuori anche un’inedita verve comica.
«L’entourage dei miei familiari era così. I napoletani sono molto plateali, hanno un istinto recitativo molto forte. Mi sono fatto l’idea che sia una conseguenza delle dominazioni: per ingraziarsi il dominatore di turno dovevano apparire bravi, buoni e servili e questo ti porta a recitare. Quella è la realtà in cui vivevo, quindi è un film realista».
Ma lei non è un regista realista.
«In questo caso sì. La consuocera di una mia zia che metteva la pelliccia d’estate e diceva le maleparole non l’ho inventata io, c’era già. Poi, se appare bozzettistica a uno di Chiasso lo capisco, perché lassù vivono in un altro modo, ma per me era la normalità. Non ho altri termini di paragone, sono cresciuto là dentro, per me quello era il mondo, la cultura. E mi sono sposato una napoletana. Noi siamo così. Io sono così».
E fa quei numeri che si vedono nel film? Non sembra il tipo.
«Invece sì, sono irascibile, teatrale, ho un mio lato un po’ più inglese perché sono timido».
Anche sua madre – benedetta Teresa Saponangelo che l’ha resa la mamma solare e affettuosa che in molti avremmo voluto, e benedetto tutto il cast, da suo padre Toni Servillo in giù – fa una scena di gelosia vesuviana con il dolore e la rabbia che eruttano come lava. Ma, a livello di sceneggiatura, come si tiene insieme il grande innamoramento fra i suoi genitori e la lunga relazione di suo padre con l’amante, una collega di banca che gli ha dato un figlio?
«Si tiene insieme perché è tutto vero. Io ho un fratellastro che poi ho conosciuto, me l’hanno detto all’indomani della morte dei miei, che mi avevano tenuto all’oscuro».
Questa sì che è un’agnizione. Passiamo allora a suo padre: come teneva insieme l’amore vero per sua madre e il tradimento?
«Diceva: è capitato. Fine della conversazione. Era una vicenda che procedeva per folate, c’erano periodi in cui mia madre scopriva che lui la vedeva ancora e altri di quiete».
Nel film la notizia del fratellastro gliela dà sua sorella, che non esce mai dal bagno, salvo un’apparizione finale. Perché l’ha chiusa lì dentro?
«Era una mia memoria infantile, lei ha 13 anni più di me, c’erano i primi fidanzati, passava ore e ore in bagno».
Si è risentita, immagino.
«Abbastanza, però le ho spiegato che nella costruzione drammaturgica i personaggi non visti ma evocati continuamente sono i più importanti».
E lei spera che ci abbia creduto?
«È veramente così nelle grandi strutture dei romanzi, anche in Madame Bovary».
Che arriva al secondo capitolo, non all’ultimo.
«Arriva anche mia sorella. La verità è che è molto più grande di me, per carità, è stata una figura molto materna, importante, quando sono morti i nostri genitori è tornata a casa già sposata e con un figlio. È stata generosissima ma, per via dei caratteri simili, ho sempre avuto un rapporto più intimo con mio fratello, anche se ha 9 anni più di me».
Concludiamo la serie del vero falso taroccato.
«Il personaggio di Luisa Ranieri è un mix fra una zia di mia mamma, non così bella, che raccontava le sue visioni di fantasmi e munacielli, e la carica erotica che potevano avere per un sedicenne le amiche di mia sorella e anche di mia madre. Con la baronessa del piano di sopra non c’è stata alcuna esperienza sessuale. Mia madre effettivamente faceva gli scherzi, quello dell’invito di Zeffirelli a una vicina è vero di sana pianta. Le veniva dagli anni in collegio: suonavano l’allarme antiaereo per far correre le suore verso il rifugio. Ma all’epoca gli scherzi si portavano molto, anche quelli telefonici. Oggi si rischierebbe la galera».
Non facciamo spoiler, ma sono grandiosi. E il secondo è uno scherzo anche per lo spettatore, che si chiede: cos’è ’sta pecionata?
«È vero, ma ho un po’ ingigantito il fatto reale. È come quando sei a cena con sette, otto persone e racconti una cosa per far ridere: cominci a sentire che non ridono e ti metti a inventare».
La strategia del pallonaro.
«Certo. Aggiungo dettagli: ormai so quali funzionano».
E sul dolore come ha lavorato?
«Niente. Il dolore s’inquadra, ci pensa l’attore. Io metto la macchina. Che posso dire? È insito nella sceneggiatura, che ho scritto da solo – perché era la mia vita, non si doveva inventare nulla – e di getto, con grandi risate e grandi pianti».
Ha pianto su serio?
«Quando scrivevo sì. Sul set meno, c’era tanta gente, uno si vergogna. E ci sono sempre i problemi pratici che ti pone la troupe. La mia è stata molto discreta, rispettosa, affettuosa».
E anche molto rinnovata a partire dal direttore della fotografia: sua cognata Daria D’Antonio al posto dello storico Luca Bigazzi.
«Lavorare sempre con le stesse persone è una cosa meravigliosa perché si crea una grande famiglia, una grande intesa, però si entra anche in una dimensione di routine, stanchezza reciproca, nessuno sorprende più l’altro e volevo ritrovare un po’ di adrenalina. Ho cambiato anche il produttore, lo scenografo, il costumista. E, soprattutto, lo stile».
La prima scena del film è un ritorno nel ventre di Napoli, un abbraccio e qualcosa di più. Quanto le mancava, cinematograficamente, la sua città?
«Non tantissimo: per il mio modo di intendere l’inquadratura, Napoli è una città ostile perché caotica, non a caso ho girato due film in Svizzera. Ho avuto un’estetica quasi sempre legata all’ordine delle cose. Il Tevere della Grande bellezza l’ho filmato da sotto, senza macchine, nella dimensione arcaica, naturale, non c’è la civiltà. Quindi Napoli non è facile da filmare, però non mi importava che il film fosse bello o brutto esteticamente, ho girato nei posti che conoscevo da ragazzo e li ho resi tali e quali. Anche il luogo dove vivevo, una location che non avrei mai scelto per un altro film: è l’appartamento sotto la mia vera casa, al Vomero. Ci abitava una signora, morta da poco, quando ci sono entrato mi è preso un colpo: lo stesso citofono, gli stessi termosifoni di quando ero bambino, lo stesso tinello in cui mio padre cambiava il canale schiacciando con un bastone la tastiera del televisore dicendo: io sono comunista! Come se un comunista non potesse comprarsi la tv col telecomando».
L’arrivo di Maradona aveva per lei e per Napoli un valore così messianico?
«Sì. Non è arrivato, è apparso. Non è sceso da un aereo, lo vedemmo sbucare dal nero degli spogliatoi del San Paolo. Non ci sono immagini del suo arrivo a Napoli. E poi spuntava nei posti, girava la città, ma per non avere la gente intorno si muoveva con la Fiat Panda e la gente si chiedeva se era lui. Quando io e mio fratello lo vedemmo in strada il mondo che in quel momento passava si fermò davvero».
Era consapevole delle aspettative che suscitava e soddisfaceva?
«Penso di sì. Uno diventato famoso così presto avrà imparato subito a capire che effetto faceva. Poi nell’84 Napoli era una città incupita, violenta, veniva dal terremoto, dalla guerra fra nuova e vecchia camorra. Mi ricordo che di notte non si usciva quasi, mio padre ripeteva di continuo le sue regole: la sera non ci si ferma al semaforo, si passa con il rosso; se si rimane senza benzina si chiama subito un taxi e si corre a casa. Quando arrivò Maradona fu anche una liberazione».
E questo film, per lei, è una liberazione?
«Mi sono sempre sentito libero, ho avuto la fortuna che qualunque film avessi in mente poi me l’hanno fatto fare. Magari proprio tutti no».
Forse non se lo consentiva da solo?
«Forse. Penso che fino a qualche anno fa non ci sarei riuscito. Sono più maturo. E sono passati tanti anni da quegli eventi».
Il dolore si è ammorbidito?
«Un po’ sì, anche perché da un mese parlo solo dei miei dolori. Che mi stanno venendo a noia: sono una routine, mentre prima appartenevano a un monologo interiore di sofferenza durato 35 anni che non mi ha migliorato di un centimetro».
Psicoanalisi, niente?
«Mai».
Riapriamo il “chiosco psichiatrico” di Lucy van Pelt dei Peanuts: in ospedale non le hanno fatto vedere i suoi genitori morti e questo evento si trasforma nella scena madre del film, con il protagonista che va fuori di testa per il dolore e la rabbia. C’è un legame con la sua scelta successiva di fare cinema? In fin dei conti il cinema vede, guarda, inquadra, mostra...
«Forse, se fossi andato in analisi, me lo avrebbero spiegato. Può essere. In tutti i miei film, tranne questo che parla di esperienze note, c’è l’ossessiva ricerca di vedere delle cose, di conoscerle. Me lo sono detto tante volte. E anche la scelta stilistica degli incessanti carrelli era un modo di avvicinarmi a quelle cose. Ma in questo film i carrelli non ci sono, perché avvicinarmi a me stesso non aveva senso: mi conoscevo già. Però non averli potuti vedere è il mio trauma più grande. Mancando il congedo, il saluto, inconsciamente scatta l’abbandono. Ecco, se ne sono andati senza salutarmi».