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 2021  ottobre 22 Venerdì calendario

IL TRIANGOLO DI "BARBAPAPA’" - LE FIGLIE DI SCALFARI ENRICA E DONATA, CHE GLI HANNO APPENA DEDICATO UN FILM, PARLANO DEL PAPA’ BIGAMO - "NON SI CAPIVA DI CHI ERA LA COLPA. SOFFRIVAMO NEL VEDERE MIA MADRE CHE SUBIVA TUTTO QUESTO. POI LO ABBIAMO ACCETTATO" - "DURANTE IL SEQUESTRO MORO, COSSIGA VENIVA SEMPRE A CASA NOSTRA. QUANDO POI È DIVENTATO CAPO DELLO STATO CON PAPÀ C’È STATA UNA FRATTURA" – A CENA CON AGNELLI. ‘PAPA', PERCHÉ LO INVITI?’. E LUI DISSE...” – LE INCAZZATURE DEI COMUNISTI PER LE VIGNETTE DI FORATTINI SU BERLINGUER - VIDEO -

Giornalista. Direttore. Editore. Eugenio Scalfari è il giornalismo italiano degli ultimi 70 anni. Dall’Espresso a Repubblica, è l’artefice di un gruppo che ha cambiato il mestiere, e anche il Paese. Quelli che “la sera andavamo in via Veneto”, delle grandi battaglie. Mai sottomessi al potere (che anzi domavano), al punto da arrivare talvolta a sostituirsi alla politica.









Una storia che non vedremo più in quelle forme e circostanze, e che valeva la pena raccontare, ancora una volta, da una prospettiva diversa. Quella di due figlie, prima bambine poi divenute donne, che sono state al fianco di un padre, narciso e testardo ma profondamente affettuoso, e che lo hanno visto attraversare un’intera vita.

Il loro sguardo intimo è il risultato di “Scalfari - A sentimental journey”, un film di Donata ed Enrica Scalfari, insieme ad Anna Migotto, con la regia di Michele Mally, prodotto da 3D Produzioni e Rai Documentari, presentato alla Festa del Cinema di Roma il 21 ottobre e in onda su Rai3 alle 17:45 sabato 23 ottobre. Abbiamo così incontrato Donata ed Enrica Scalfari. A chi e come è venuta l’idea del documentario? «È venuta a me (risponde per prima Donata). Ci ho messo un po’ a convincere mia sorella (Enrica) ma ci siamo riuscite».

Quanto avete impiegato a realizzare il documentario? «Noi abbiamo iniziato a scriverlo durante il primo lockdown, poi abbiamo fatto le riprese tra luglio e settembre, circa un anno fa. La scrittura e la sceneggiatura con il montaggio l’abbiamo fatta nell’inverno 2021. A maggio il documentario era finito, poi l’ha preso il festival di Roma e abbiamo aspettato».

È stato difficile convincere Eugenio? «All’inizio non capiva bene cosa volevamo fare. Diceva: “Ma che è sta cosa? Prendete la mia biografia, ce l’avete già”. Poi si è convinto e mano a mano che facevamo le cose si incuriosiva. Alla fine si è anche divertito perché siamo stati per 10 giorni insieme».

Facciamo un passo indietro e raccontiamo gli anni in cui siete nate. «Lei (Enrica) è nata nel 1955».

Un anno a caso… (Ride Enrica) «Sì, io sono nata con L’Espresso, nel senso che era proprio lo stesso anno della fondazione. Lei (Donata) invece nel 1960».

Quando nasce Repubblica, nel 1976, invece avevate 21 e 16 anni. Cosa vi ricordate di quel ventennio? (Risponde ancora Enrica) «Intanto mi ricordo tuo nonno, Antonio Gambino. Stava spesso a casa nostra con tua nonna, grandissima amica, e il loro cane, un dalmata. Eravamo molto legati. Veniva sempre perché ha fatto parte della fondazione dell’Espresso. Mi ricordo che a casa sfogliavo questo giornale gigantesco».

Il celebre formato lenzuolo. E com’era? «Il formato lenzuolo era meraviglioso. Con tutte quelle pagine, questa grafica moderna, fotografie fantastiche. Il senso del reportage. Ero affascinata da questo lenzuolo che girava per casa. Avevo 4/5 anni e ci giocavo… poi ricordo la casa che era sempre piena di giornalisti».

Che casa era? «Quella di via Nomentana. Sempre la stessa. Siamo nate lì. Quando L’Espresso divenne a colori ricordo che rimasi profondamente colpita da questo servizio con le fotografie di un feto visto dall’interno della placenta, colorate artificialmente. Un servizio pazzesco che non si era mai visto. Sicuramente il primo in Italia di quel tipo. Io avevo circa 10 anni e lo guardavo e riguardavo».

Cosa muoveva gli animi di quegli uomini nell’Italia conformista dell’epoca? (Risponde Donata) «Era un gruppo di giornalisti che veniva da Il Mondo, quindi c’era una storia ben precisa dietro». Vale la pena spiegare brevemente quale. «Il Mondo era un giornale d’élite, e che voleva essere d’élite, per pochi, per liberali e riformisti. Invece il salto con L’Espresso è stato: “Noi vogliamo mantenere questi principi, però vogliamo allargarci. Deve diventare una cosa più di massa”. Altrimenti rimaniamo chiusi nel nostro orticello».

Una visione di parte ma non di partito. «C’era già l’idea di voler prendere tutta una schiera di progressisti di sinistra che non arrivava a stare con il PCI, che negli anni Sessanta era un partito “bigotto” verso certi temi. Tutta la storia del Gruppo ha sicuramente agevolato il PCI a emanciparsi dai sovietici e da quella idea di comunismo che c’era. Fino ad arrivare al referendum sul divorzio».

Qual era il legame fra quel gruppo di giornalisti e la politica? (Risponde Enrica) «Mio padre era amico di molti politici. I più disparati. A casa nostra veniva spesso Gian Carlo Pajetta, Miriam Mafai (che poi lavorava anche con Repubblica). Veniva Antonio Tatò, segretario di Berlinguer, che era un vero amico. E poi De Mita, Cossiga. Berlinguer…»

(Interviene Donata) «Con alcuni si instaurava un rapporto di amicizia. Quando Cossiga era ministro degli Interni, durante il sequestro Moro, veniva sempre a casa nostra. Quando poi è diventato capo dello Stato e ha iniziato a togliersi qualche sassolino dalla scarpa, con papà, nonostante l’amicizia, c’è stata una frattura».

Parlavo di questa fermezza nel rapporto con la politica. (Conclude Donata) «Una frattura totale». Chi erano i punti di riferimento di Eugenio all’epoca? «Per L’Espresso Mario Pannunzio, Ernesto Rossi, Arrigo Benedetti. Erano i suoi tre maestri, sin da quando cominciò al Mondo».

(Interviene Enrica) «Poi a quell’epoca c’era anche Raffaele Mattioli. Era il presidente della Comit. Quando mio padre andò a Milano a lavorare alla Banca Nazionale del Lavoro, divenne amico di Mattioli, ma era appena un ragazzino. Non aveva nemmeno 30 anni. Mattioli era già Mattioli e lui andava sempre a trovarlo in banca. Faceva salotto e quindi lì ha conosciuto molte persone».

C’è una bellissima scena nel documentario in cui Eugenio chiede a suo nipote, il figlio di Donata, che cosa voglia fare da grande. Simone, oggi ventenne, dice: «Il procuratore sportivo». Ed Eugenio, lapidario, risponde: «Ah». Deluso? (Ride Donata) «No, no, ma non ci pensa minimamente a fare il giornalista».

Tu invece hai seguito le sue stesse orme. «Sì, ma non a Repubblica. Ero più una tipa da L’Unità, di cui diffondevo le copie davanti al liceo Tasso di Roma, ed ero anche iscritta alla Federazione Giovanile dei Comunisti. Papà un giorno disse scherzosamente che piuttosto avrei dovuto diffondere Repubblica, cosa che non avvenne, se non in occasione di una foto ricordo che con mia sorella scattammo per gioco e mostrammo a nostro padre».

È stato difficile per te, Donata, essere sua figlia in quell’epoca? «Io ero una militante del PCI, avevamo discussioni abbastanza accese perché all’inizio il PCI e L’Unità vedevano Repubblica un po’ come il loro avversario giornalistico. Venivano considerati i radical chic della sinistra».

Ricordi un aneddoto? «Quando in sezione si commentavano le vignette di Forattini che ritraeva Berlinguer con la brillantina e la vestaglia… loro si incazzavano da morire. Allora io arrivavo a casa e dicevo: “Papà ma basta, ma come vi permettete!”».

Ed Eugenio cosa rispondeva? «Ero giovanissima, 15/16 anni. E lui diceva a mia madre: “Simonetta, tua figlia frequenta troppo la sezione, peggio di una chiesa. Casa e sezione. Non va bene perché la stanno rincoglionendo”».

Come veniva vista Repubblica in quegli anni dal PCI? «Come l’espressione di una sinistra borghese. La vera lotta operaia stava altrove. Questo, almeno fino al sequestro Moro...».

E poi? (Interviene Enrica) «All’inizio c’era grande curiosità. Un nuovo formato, non c’era più la terza pagina. La cultura centrale l’ha inventata Repubblica. Non c’era lo sport. Repubblica si poneva come giornale nazionale. Come quotidiano che potevi comprare insieme al giornale della tua città. Poi con il successo è stato inserito lo sport. Piano piano è stato incluso tutto il resto. Anche le edizioni locali, ancor prima del Corriere della Sera...».

Come è cambiato il giornalismo dagli anni Ottanta a oggi? (Donata) «Una differenza abissale. Gli editori erano per la maggior parte puri. All’epoca di mio padre, nella loro esperienza, gli editori erano i giornalisti. Non c’era un progetto economico dietro e per cui non bisognava fare l’interesse dell’azienda. Ma solo l’interesse di ciò che loro pensavano giusto».

Una stortura dell’editoria che in Italia si è accentuata sempre più… «Va detto però che quando Carlo De Benedetti subentrò, pur non essendo in questo senso un editore puro, lasciò molto libero il giornale. Per moltissimi anni non ha mai interferito con quello che papà voleva scrivere o dire».

E oggi? (Enrica) «È cambiato il modo di fare giornalismo. È un giornalismo onnicomprensivo e quindi più distratto. Devi scrivere di tutto. Dato che i giornali vanno tutti male, devi riuscire a catturare attraverso il web più persone possibile con no tizie che sono stupidaggini. Non c’è una vera scuola che forma. Non ci sono personaggi che formano i nuovi giornalisti».

E allora qual è il futuro del giornalismo? «Ci vorrebbe un’enorme riforma tra il cartaceo e l’informazione digitale. Perché il cartaceo che mi mette la cronaca dell’incidente aereo del giorno prima non ha senso. La carta dovrebbe essere il posto degli approfondimenti, dei commenti».

L’avete mai detta ad Eugenio questa cosa? «Certo. Anche papà è d’accordo, lo dice da 15 anni. Lo ha sempre detto».

C’è una battaglia oggi che vi riporta indietro negli anni del vostro impegno politico? «Quella sul clima, è l’unica in cui una grossa parte di giovani si ritrova. Grazie a Greta».

Nel documentario fate notare a Eugenio che in alcune circostanze era poco presente e fate riferimento a quel “triangolo” tra vostra madre e la sua compagna. (Enrica) «A un certo punto mi sono accorta che esisteva questa duplicità e non capivo, perché ero piccola. Avevo 10 anni. Non capivo di chi era la colpa, perché per me ovviamente c’era una colpa. All’epoca non ne ho mai parlato. Non avevo i mezzi per poter affrontare una cosa del genere. Per un periodo i miei genitori si sono separati, poi papà è tornato. Io soffrivo per la loro separazione, nel vedere mia madre che subiva tutto questo. Poi lo abbiamo accettato. Non ne abbiamo più parlato per moltissimo tempo».

Qual era il rapporto con vostra madre? «Di grande complicità. Mamma è sem pre stata una persona molto solare e indipendente. Questa situazione l’ha vissuta soffrendo, ma una volta assodata non è stata lì ad aspettare papà. Aveva un suo giro di amici. Faceva dei viaggi. Lavorava».

Nel documentario fate notare a vostro padre che ha ceduto le sue quote societarie perché “non aveva eredi”. Avreste voluto essere eredi di quella Repubblica? (Donata) «All’epoca non ci pensavamo proprio. A posteriori forse…Poi però sono finita a Mediaset per 30 anni…» (ride).

E com’è stato quando dovevi seguire Cossiga o Craxi? «Finché ho potuto, ho sempre fatto tutto. Quando però la situazione coinvolgeva mio padre, è capitato che mi tirassi indietro e che dicessi: “No, io non vado, non posso”». Nessuna di voi aveva l’ambizione di prendere il suo posto un giorno? (Enrica) «No.. ma che sei matto? Poi uno diventa direttore di un giornale perché è capace di farlo... Io mi sono messa a fare la fotografa proprio per essere un’altra cosa».

Con vostro padre vi vedete spesso? «Sì, da sempre, almeno due o tre volte a settimana. A pranzo, a cena».

Qual è il pregio più grande di vostro padre? Non solo giornalisticamente. (Enrica) «Lui si è sempre definito un oblativo. Narciso, oblativo. E poi la sua ironia è stata fondamentale nella nostra crescita. Il fatto di amare molto se stesso ma, allo stesso tempo, di essere estremamente generoso. Affettivamente.

Era coinvolgente. La sua felicità derivava dal benessere degli altri. Tutte le persone che stavano intorno a lui dovevano essere contente. Anche al giornale. E lui faceva di tutto per far sì che questo avvenisse.

Con i suoi modi. E la sua valutazione della felicità altrui». (Donata) «Il più grande pregio è che mi ha dato una grande sicurezza, una grande consapevolezza di me stessa».

C’è qualcosa su cui siete state fortemente in disaccordo rispetto alla linea editoriale di vostro padre? (Enrica) «Devo risalire a quando anche io andavo alle manifestazioni. C’era uno slogan che si gridava spesso: “Agnelli, Pirelli, prendiamo i martelli”. E una volta, quando Repubblica ancora non era nata, torno a casa ed era in corso una cena con varie persone, e tra gli invitati c’era anche Agnelli. Mi sono detta: “Come è possibile?”. Lì mi sono proprio incazzata. Ci sono rimasta male e il giorno dopo ho chiesto a papà: “Perché inviti Agnelli?”. E lui disse una cosa del tipo: “Gli avversari bisogna conoscerli bene per poterli criticare e si possono avere anche rapporti di amicizia”».

Quel gruppo oggi appartiene proprio agli Agnelli…Ma andiamo avanti: chi sono i giornalisti che Eugenio apprezza di più? «Ezio Mauro è suo figlio, il suo erede, a cui ha lasciato Repubblica. Bernardo Valli è suo fratello. Ama Carlo Verdelli. Non si conoscevano prima di quell’anno in cui è stato direttore, ma ha avuto un bel rapporto con lui, così come con Molinari e Damilano».

Guardandovi indietro, c’è qualcosa che quel gruppo di giornalisti – di cui vostro padre ha fatto parte – non capì rispetto a quello che viviamo oggi? «La deriva del sovranismo. Quelli di prima credevano nell’Europa».

Oggi il populismo è stato sconfitto? «No, anche perché alle elezioni amministrative di ottobre hanno votato in pochissimi». Vi piace questo governo Draghi? «Sì». Meglio Mario Draghi o Giuseppe Conte? «Draghi». E il Pd... Vi piace Enrico Letta? «Sì». Meglio Letta o Zingaretti? «Letta».